Come annunciato su questa testata, l’Accademia Nazionale di Santa Cecilia ha riaperto le porte della stagione sinfonica con un festival dedicata al duecentocinquantesimo anniversario della nascita di Ludwig van Beethoven: cinque concerti dal 9 al 24 luglio nella Cavea del Parco della Musica dove il direttore musicale Antonio Pappano ha guidato i complessi dell’Accademia nell’integrale delle sinfonie del sommo maestro di Bonn.
Non potendo seguire l’intero ciclo, sono andato al concerto conclusivo dove nella Cavea (il “tutto esaurito” era affisso da giorni) veniva eseguita la “nona sinfonia”, detta di solito “corale”, ma alla cui partitura Beethoven affisse di proprio pugno il titolo “allemande”, quasi a sottolineare come la sua fosse arte tedesca, nonostante risiedesse a Vienna da lustri.
La “nona sinfonia” apparve come un lavoro rivoluzionario sin dalla prima esecuzione, non solo per la presenza delle voci e del coro, ma perché metteva in crisi il concetto stesso di “sinfonia”. La nona è una grandiosa architettura nella quale Beethoven fa convivere altri generi musicali: lo stile operistico, la musica militare, gli esotismi “alla turca”, la scrittura polifonica tipica della musica sacra. La grandiosità della concezione determinò la successiva evoluzione del sinfonismo romantico fino a Mahler, in questa sinfonia Beethoven ritorna allo stile eroico della terza e sperimenta sue audaci innovazioni. Una delle novità più rilevanti è il superamento dello schema sonatistico dei due temi contrapposti a favore di un’elaborazione più complessa che non solo mette in gioco materiali diversi, ma moltiplica i livelli di contrapposizione.
Nell’ultimo movimento l’impulso al canto trova il suo sfogo e si materializza nell’inserimento delle voci soliste e del coro, infrangendo le barriere del genere sinfonico. Il movimento si snoda attraverso sezioni molto marcate e nettamente contrastanti sino a una doppia fuga che porta alla trionfale conclusione.
Circa un paio di anni fa, ascoltai la “nona” in un’esecuzione in cui i complessi di Santa Cecilia erano diretti da Kirill Petrenko. Appare, quindi, quasi naturale raffrontare la lettura di Pappano con quella del più giovane Petrenko, anche perché ambedue hanno una grande esperienza di musica operistica.
Due letture, al tempo stesso, filologiche e personalissime. Nella “nona’”composta oltre dieci anni dopo la sua precedente sinfonia (“l’ottava”), non solo, come si legge spesso nelle enciclopedie musicali, Beethoven prende la struttura sinfonica in quattro tempi formalizzata da Haydn, e vi aggiunge la voce, ma lancia una sfida tesa verso il futuro, modificando la sintassi sinfonica (lo “scherzo” precede “l’adagio” invece di seguirlo) e dandole un grande afflato filosofico e morale. Wagner parlò di liquidazione, con la “nona”, della forma stessa di sinfonia e della musica puramente strumentale e, quindi, come punto di avvio del sinfonismo come parte integrante dal “dramma musicale” di cui sono maestri sia Petrenko che Pappano. A differenza delle letture cesellate (ad esempio, quella di Solti con i complessi di Chicago immortalata in una registrazione della Decca del lontano 1966) o di quelle eroiche (quali quella di von Karajan), sia Petrenko che Pappano offrono interpretazioni altamente drammatica. Quella del primo è più teutonica, mentre quella del secondo è piena di aura mediterranea, come il venticello che la sera del 24 luglio temperava il caldo romano e rendeva piacevolissima la Cavea del Parco della Musica. Petrenko ha il braccio più largo di Pappano e dirige con tutto il corpo, pure le anche, mentre il gesto del secondo è più contenuto e molto mirato.
L’aspetto saliente è lo stacco netto tra i primi tre movimenti e il quarto. È uno stacco presente non solo nella partitura, ma in numerose altre esecuzioni. Tuttavia, mentre molti direttori d’orchestra vedono i primi tre movimenti come una sintesi o una summa dei precedenti lavori sinfonici di Beethoven, Pappano legge i primi tre movimenti come filtrati dalla memoria, come un ricordo (dell’autore) di quelle erano state le sue precedenti sinfonie, ricordo tanto più necessario in quanto si predisponeva a lanciarsi su un terreno sino allora inesplorato. Lo si avverte sin dal primo accordo. Il primo movimento (Allegro ma non troppo maestoso) è letto quasi come una tempesta di mare. Il secondo (Molto vivace) come un momento di lietezza solare. Il terzo (Adagio molto e cantabile) è languido e appassionato. La gioia esplode nell’inno schilleriano in cui il coro e i solisti (Maria Agresta, Sara Mingardo, Sainir Pirgu, Vito Priante) fondono le loro voci con l’orchestra. Il coro è situato nei primi gradoni del lato sinistro della Cavea. Con ottimi effetti stereofonici.
La direzione di Pappano è spettacolare. Un successo enorme coronato da dieci minuti di ovazioni.