Vorrei che i deputati dem che hanno proposto l’insegnamento a scuola del canto “Bella ciao”, assieme all’Inno di Mameli, avessero solo una passione confessa per la serie Netflix de La casa di carta. Temo invece che l’invenzione di una tradizione, com’è stato per l’Italia, sia dilagata in tutto l’orbe grazie a movimenti soprattutto giovanili di sinistra o estrema sinistra e che sia l’ideologia a dominare.



E dire che “Bella ciao” non è un canto comunista, benché sia abitudine cantarlo a squarciagola col pugno chiuso, e neppure un canto della Resistenza. Acclarato da studiosi di storia della musica popolare e perfino da un resistente perenne come Giorgio Bocca, che avendo però fatto il partigiano davvero, non come quelli dell’Anpi 2020, dopo i giovanili trascorsi repubblichini ben sapeva che i partigiani cantavano per riconoscersi “Fischia il vento”, modellato sulla russa “Katiuscia”, e per nulla “Bella Ciao”. Che venne eletta a simbolo della guerra al nazifascismo solo vent’anni dopo la fine della guerra, in quell’Emilia rossa che la fine l’ha protratta per parecchi anni, con eccidi seminascosti che solo da poco e sempre con pudore imbarazzato vengono raccontati.



Da dove arriva questo canto malinconico che descrive romanticamente la morte solitaria dell’eroe innamorato e lontano da casa? Non è dato saperlo, ma probabilmente mette insieme un canto delle mondine e la musica e la scrittura metrica di un canti popolare veneto dal titolo “La me nòna l’è vechiereta”. Chi vuole può cogliere l’ironia.

C’è qualcosa in effetti di stantio nell’epopea eternamente riproposta di una resistenza ridotta a simboli, dopo 70 anni. Ricordo che a scuola sussisteva qualche strascico di analoghe pulsioni retoriche quando ci facevano studiare il Risorgimento, e lo slancio degli eroi che sventolavano il tricolore, tutti giovani e belli, ci commuoveva. Era giusto, sempre, riandare alle memorie.  E così ci facevano leggere le Lettere dei condannati a morte della resistenza italiana e i capolavori che l’hanno raccontata, tutti però, anche La ragazza di Bube, che pure fece storcere il naso, perché qualche eroe era forse bello, ma anche crudele, ideologicamente ottuso, e perfino assassino.



Studiare a scuola Bella ciao? Se non fosse l’inno di zapatisti e chavisti e reduci nostalgici del comunismo reale, andrebbe anche bene. Ma dubito che sarebbe pacificante per la memoria collettiva, e dubito che piacerebbe ai ragazzini (a parte il riferimento a La casa di carta naturalmente), dato che è la storia di un guerriero perdente, che non ha altre prospettive che una tomba in montagna.

Non che l’Inno di Mameli col fragor di coorti sia meno distante e pomposo: ma che piaccia o no, ce lo teniamo da 160 anni e ci commuoviamo tutti quando gioca la Nazionale, ma non solo: il presidente Ciampi l’ha riportato all’onor del mondo, con un intelligente lavoro di riproposta culturale. I francesi ci precedono di un secolo, quanto a inno, e con un canto ben più truculento e sanguinario. Non pare che les enfants ne siano turbati né mitighino lo sciovinismo dei loro padri.

Ai deputati Pd ricorderei che andare al potere, oltretutto da miracolati, non significa occupare tutti gli spazi possibili, incluse le menti degli studenti. L’hanno già fatto con le case editrici, coi giornali, con i media, imponendo una presunta superiorità culturale che è diventata verbo. C’è chi insiste, solo in nome della ragione, non dell’ideologia, a metterla in dubbio. Lasciate in pace i partigiani, quelli buoni, alla loro storia e ai ragazzi date memoria certa, e tanto, tanto futuro.