L’avventura di Benedetta Pilato alle Olimpiadi di Tokyo è finita il giorno stesso in cui è cominciata. La tarantina aveva fatto suo il record del mondo dei 50 rana (una distanza non olimpica) quando aveva 14 anni: all’epoca era stata l’atleta italiana più giovane a debuttare, battendo così in precocità Federica Pellegrini la cui pesantissima eredità le era stata subito addossata. Benedetta ha detto di essersi sentita stanchissima e di non sapersi spiegare l’accaduto. Mentre scrivo arriva la notizia di Simone Biles, 24 anni, che si ritira per problemi psicologici. La straordinaria ginnasta statunitense aveva scritto di sentire sulle proprie spalle “il peso del mondo”.
Simone ha dichiarato di avere da qualche tempo “démoni nel cervello” e probabilmente Benedetta ha vissuto un’Olimpiade “orribile” come l’ha definita lei stessa, semplicemente perché tradita dall’emozione e dalle aspettative. Sia per Benedetta che per Simone è stato speso l’aggettivo “clamoroso” e proprio questo deve farci riflettere. Il nuoto, come la ginnastica, vivono normalmente nel quasi totale silenzio mediatico, eppure nel caso delle sconfitte l’esposizione è assoluta. Benedetta poi, a differenza della Biles, è diventata nota al grandissimo pubblico solo per aver perso. La sconfitta ha suscitato riflessioni sinceramente eccessive per una ragazzina di 16 anni che, in fin dei conti, ha solo sbagliato una gara. C’è qualcosa che non funziona in un sistema che sottolinea la sconfitta e non premia il lavoro immenso che c’è dietro la partecipazione ad un’Olimpiade. I ragazzi che arrivano a quei livelli vivono spesso per anni lontano dalle famiglie e conducono un’esistenza colma di privazioni in termini di vita sociale e di formazione culturale. Una ragazza come Benedetta ha dimostrato la sua maturità con il solo esserci.
Invece di puntare gli occhi contro la Pilato per la sua sconfitta o contro la Biles per il suo ritiro dovremmo forse guardare al nostro sistema mediatico. Senza andare troppo lontano, pensiamo a Berrettini, che con i suoi 25 anni è praticamente coetaneo della Biles. Il suo successo è stato enormemente facilitato dall’arrivo in finale a Wimbledon quasi a fari spenti, senza eccessive aspettative. E la sua sconfitta in finale è stata giustamente celebrata come una vittoria. Anche la nazionale azzurra è stata non poco favorita dal non essere tra le favorite.
Avremmo dovuto fare lo stesso per Benedetta. A 16 anni essere a un’Olimpiade è già un record, è già aver vinto. Una sconfitta sportiva non può mai essere una disfatta. Perdere, non solo a 16 anni, è un’opzione normale, non una tragedia. È una gara. Se la Biles sente sulle proprie spalle “il peso del mondo” forse ha colpa anche chi ha dimenticato che una gara è solo una competizione. Qualcosa d’importante ma non di essenziale per la vita: assolutamente non qualcosa che bisogna affrontare con l’angoscia di dover vincere ad ogni costo. Un’Olimpiade sbagliata non può essere mai una tragedia, e soprattutto non lo può essere se ci arrivi a 16 anni.
Dobbiamo aiutare i giovani a vivere le loro esperienze sportive non come promesse “escatologiche” ma come occasioni in cui sperare, con la gioia e la consapevolezza che già essere arrivati a Tokio è una vittoria: non un’occasione persa, ma il passo necessario per diventare veri campioni nella vita.
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