Una figura straordinaria, la cui storia è illuminata dall’atto finale, quello della rinuncia. Un pontefice che come intellettuale ha affrontato, anche in modo tormentato, il tema del rapporto tra fede e modernità, interessato alle persone e al dialogo con loro. Questo è stato per Fausto Bertinotti, ex presidente della Camera ed ex segretario di Rifondazione comunista, Benedetto XVI. Un Papa che ha cercato di interpretare i cambiamenti e che va compreso soprattutto per questa sua volontà di indagare il destino della Chiesa e dell’umanità.
Presidente Bertinotti, Papa Ratzinger ha segnato il suo tempo anche in virtù di una scelta assolutamente inaspettata con la quale ha concluso il suo mandato. Che cosa ha caratterizzato più di ogni altra cosa il suo pontificato e la sua persona?
L’atto delle dimissioni è stato davvero rivoluzionario, illumina tutta la sua storia precedente, a partire da questo elemento così carico di suggestione: l’elevazione della fragilità umana a dignità e a capacità di costituire anche un trascendimento del potere. Fino a quel momento le dimissioni erano un atto sostanzialmente impedito. Tutti i papi che abbiamo conosciuto hanno compiuto un atto di servizio fino in fondo, ma c’è un papa, Benedetto XVI, che non compie fino alla fine questa missione: nel punto in cui sente che la sua fragilità umana acquista un valore e una dignità di fondo, compie un atto veramente rivoluzionario e mette questa fragilità alla guida della sua esperienza. E poi trovo quasi insopportabili le etichettature in particolare per questo pontefice, definirlo conservatore oppure no: secondo me non vuole dire niente.
Ci spieghi meglio questo punto, per favore.
Siamo di fronte al cimento di un sacerdote intellettuale che affronta con il proprio bagaglio teologico, umano ed esperienziale, il rapporto tra fede e modernità, che si pone interrogativi di fondo sul destino stesso della Chiesa. Ci sono dei tratti che ricordano Paolo VI. In questo contesto si vede il profilo persino tormentato di questa ricerca. Nella sua storia Ratzinger nasce con il Concilio Vaticano II e la sua apertura eccezionale al mondo. Alcuni percorsi che presero l’avvio da quella stagione però indussero dei dubbi che lo portarono a scelte controverse, che non possono essere lette con i canoni della politica, considerando Benedetto XVI di destra o di sinistra, conservatore o innovatore, ma vanno lette dentro questa temperie.
E che cosa ha fatto Ratzinger di fronte all’eredità così difficile di quegli anni?
Ha agito come un vero intellettuale che si interroga continuamente sui cambiamenti. In questo interrogarsi, e quindi anche nel tormento, c’è tutto il valore di una ricerca ininterrotta. Su ogni cosa può nascere un’interrogazione di fondo sull’umanità e dunque anche sulla Chiesa: il rischio della catastrofe è immanente, la percezione di questo rischio e la necessità dell’intellettuale e dell’uomo di fede, quale che sia la sua fede, di portarsi sulle soglie dell’abisso e guardare l’abisso è condizione necessaria per potersi proiettare nel futuro: con l’eredità di Nietzsche non si può non fare i conti.
Lei ha incontrato Benedetto XVI anche personalmente, ha avuto modo anche di scambiare qualche parola con lui. Che persona ha incontrato?
Era visibile anche nella sua gentilezza di tratto il carattere che prima le dicevo. Ci sono grandi leader che anche in nome di una visione del mondo ottimistica tendono a dislocare lo sguardo verso grandi processi. In uomini che accentuano la ricerca, invece, è possibile vedere un interesse per la persona. Gli uni guardano più alle masse, gli altri, attraversati dal dubbio della ricerca, tendono a guardare per indagare e dialogare, senza scavalcarti. Nel momento di crisi sei indotto a ricercare i fondamentali, anche nella persona. Se c’è un processo di massificazione in corso, fino al rischio della mercificazione delle relazioni umane, fino al rischio di disumanizzazione, guardare dentro la persona è cercare un lievito fondamentale. Così ho visto una sua essenziale curiosità nei confronti di chi incontrava personalmente, un’attenzione profonda come attitudine umana. Tutto questo, comunque, non lo avrei pensato senza l’atto conclusivo.
Uno degli aspetti che hanno caratterizzato il pontificato è questa richiesta di confronto serrato tra ragione e fede, sviluppata in diversi modi, e che ha avuto ripercussioni nel confronto interreligioso caratterizzato da un dialogo con i non credenti. Da questo punto di vista cosa le suggerisce il pontificato di Benedetto XVI?
Ho in mente il dialogo tra Ratzinger e Habermas, penso che tutta la Chiesa abbia in questa duplice ricerca del rapporto fede-ragione e del confronto interreligioso un aspetto che può avere diverse interpretazioni, in cui la Chiesa non può abbandonare uno dei due elementi del dialogo senza perdersi. Prendiamo Giovanni Paolo II, Benedetto XVI e papa Francesco, diversi nell’interpretazione di questo rapporto ma tutti e tre costretti nella loro diversità a farci i conti: le vie sono diverse ma il campo è obbligato.
Altrimenti?
Senza questo dialogo viene accettata la riduzione dell’uomo a componente della macchina. Vale anche in altri campi: la politica per me è l’idea di trasformare il mondo e di liberare l’uomo dallo sfruttamento, la politica non si pone il problema della felicità, se se lo pone sbaglia. Anche per la politica vale il rapporto di cui sopra: possiamo chiamare “ragione” questa idea storica del mondo e delle sue conquiste e possiamo chiamare “fede” un elemento messianico, cioè che il cammino sia illuminato da una meta. Senza la fede intesa come elemento messianico, la politica diventa miserabile. Quella lezione è quindi universale. È un binomio che va mantenuto un po’ per tutto. Anche in questo sta la grandezza di Ratzinger.
(Paolo Rossetti)
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