L’ultimo libro di papa Benedetto XVI (Che cos’è il cristianesimo. Quasi un testamento spirituale, Mondadori 2023) raccoglie i testi scritti dal pontefice dopo la rinuncia nel 2013. Come racconta nella prefazione al volume, al momento della rinuncia Benedetto non aveva programmi particolari. Solo lentamente riprese il suo lavoro di teologo intervenendo sui temi che gli stavano particolarmente a cuore.
Come nelle sue opere più famose egli muove dalle domande fondamentali: Ha ancora senso parlare di religione in un tempo dominato dalla ragione critica e dal positivismo? E ancora: le religioni non sono più o meno tutte uguali per cui l’una vale l’altra?
Benedetto nega anzitutto che vi sia una definizione unitaria delle religioni. Nel mondo vi sono le diverse religioni ciascuna con la propria specificità. Anche l’abusata definizione di “religioni del libro” non coglie nel segno. Se, infatti, questa definizione può valere in qualche modo per l’islam che crede in un unico libro calato per così dire dal cielo, essa non è atta a definire la religione ebraica e quella cristiana. Gli ebrei, infatti, hanno a fondamento della loro religione la Bibbia, che risulta da un insieme di libri composti da uomini nell’arco di 700 anni. A questi libri i cristiani aggiungono un’ altra serie di opere che formano il Nuovo Testamento e che vennero composte dai discepoli di Gesù di Nazaret nell’arco di circa 100 anni. Se ora ci accostiamo più da vicino alla religione cristiana vediamo che essa è una religione dell’amore. Essa crede in un Dio che si lega mani e cuore a noi uomini, vuole intessere con noi un dialogo d’amore. Per questo vale ancora la pena di credere nel Dio di Gesù Cristo, vale la pena di rispondere al suo amore.
Nel capitolo dedicato ai temi fondamentali della religione cristiana merita di essere ricordato in particolare il tema della musica. Grande appassionato di musica al punto che da giovane insieme con il fratello attraversava in bici il vicino confine con l’Austria per andare ad ascoltare i famosi concerti mozartiani a Salisburgo, pone anche qui una domanda di fondo: da dove ha origine la musica, da dove viene e dove tende?
Benedetto individua tre esperienze fondamentali dell’uomo che sono a suo dire la scaturigine prima da cui nasce la musica. Anzitutto vi è l’amore. Quando gli uomini furono afferrati dall’amore si schiuse loro un’ altra dimensione dell’essere che li spinse ad esprimersi in modo nuovo, con la poesia, il canto, la musica. La seconda esperienza all’origine della musica è la sofferenza, il dolore, la morte. Anche qui vi è qualcosa di misterioso che l’uomo non riesce ad esprimere con le parole e deve ricorrere ad altra modalità espressiva, alla musica. Da ultimo, il terzo luogo nel quale quasi naturalmente ci viene incontro la musica è il mistero divino. Scrive al riguardo papa Benedetto: “Trovo commovente osservare come ad esempio nei Salmi agli uomini non basti più neanche il canto, e si fa appello a tutti gli strumenti”.
Venendo ora al contenuto più strettamente ecclesiale, al centro dell’opera vi è la preoccupazione per l’unità della Chiesa messa a rischio dalle tensioni presenti soprattutto nella Chiesa in Germania. Nella sua riflessione il papa emerito parte da lontano, da Lutero. Il Padre di Gesù non è un Dio della paura, da cui, secondo il riformatore tedesco, ci libera la sola fede. La caratteristica principale del Padre è la misericordia. Egli ha creato un mondo bello e buono, ha stretto un patto di alleanza con il popolo di Israele, ha inviato il suo Figlio per annunciare la salvezza a tutti gli uomini. Inoltre papa Benedetto ricorda una devozione presente proprio in alcune zone della Germania: “Qui si presenta davanti ai miei occhi un’impressionante immagine che rappresenta il Padre sofferente, che come Padre condivide interiormente le sofferenze del Figlio”. Il sacrificio del Figlio ha valenza trinitaria e si pone al centro della vita cristiana come sacramento che rinnova ogni giorno l’offerta sacrificale del Figlio. Per rinnovare questo sacrificio un ruolo fondamentale spetta ai vescovi, successori degli apostoli, e ai sacerdoti. Essi sono chiamati per vocazione a stare alla presenza di Dio e a offrire il sacrificio della salvezza. Per il sacrificio da loro offerto diventa reale la presenza di Gesù nell’Eucarestia.
Di qui la freddezza di Benedetto verso certe posizioni del dialogo tra cattolici ed evangelici in Germania. Troppo facilmente, osserva il papa, e per ragioni più politiche che religiose si insiste sull’intercomunione, la partecipazione dei fedeli alla cena evangelica e alla Messa cattolica. Qui, però, ci troviamo di fronte a due visioni molto diverse. Mentre per gli evangelici la presenza di Gesù dipende in ultima analisi dalle disposizioni interiori di quanti partecipano alla cena, la celebrazione eucaristica dei cattolici è un sacramento che provoca un cambiamento sostanziale nel pane consacrato. Di qui un’ulteriore differenza: per i cattolici la presenza di Gesù nell’ostia consacrata continua anche dopo la fine della celebrazione liturgica, mentre per gli evangelici finisce al termine della cena comunitaria.
Papa Benedetto contrario, dunque, al dialogo con le comunità nate dalla riforma? Certamente no. Egli invita tuttavia i cattolici, in particolare i vescovi e i sacerdoti, a non svigorire il mistero centrale della fede cristiana. Il dialogo ecumenico è un percorso che, secondo un’espressione di sant’Ireneo, richiede il tempo della crescita e della maturazione.
In conclusione, a favore dei sacerdoti e dei fedeli, vorrei ricordare uno dei miei ultimi incontri con il papa emerito. Era il 28 giugno 2021, il giorno antecedente il suo settantesimo anniversario di sacerdozio. Nel monastero sopra il Vaticano c’era aria di festa. Nella cappella della casa vi erano alcuni membri di uno dei più famosi cori di Germania, quello dei “passeri di Ratisbona”, che preparavano i canti da eseguire durante la Messa del giorno successivo. Papa Benedetto era radioso, ricordava con gioia il giorno della sua prima Messa ed era felice per quella scelta vocazionale cui era stato fedele per l’intera vita.
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