Quando Joseph Ratzinger fu eletto al soglio pontificio la Bild, quotidiano popolare e non certo confessionale, titolò entusiasta: “Wir sind Papst!”, “Siamo papa!”. Lo stesso giorno, l’allora cancelliere socialdemocratico Gerhard Schröder, di ascendenza protestante ma personalmente agnostico, disse con insolito entusiasmo che per la Germania era davvero, e finalmente, finita la seconda guerra mondiale.
Eppure, la sua Germania non lo ha mai davvero amato, in particolare proprio gran parte di quella Germania di tradizione cattolica. Certo, esiste una nutrita schiera di suoi allievi, costituitisi anche in un vero e proprio circolo; esistono alcuni vescovi che si richiamano al suo esempio e al suo insegnamento. Ma l’ambiente con lui più freddo e ostile è, in realtà, quello del cattolicesimo progressista, da qualche decennio ampiamente egemone nella Chiesa cattolica di lingua tedesca. È un cattolicesimo che vuole disegnare da sé i propri contorni e che celebra la rottura con la propria tradizione, inseguendo una modernità che, nella realtà, è già stata superata dalla storia. La tragedia della Chiesa tedesca – e, forse, della Germania come tale – è che là, dove altri si limitano a uscire dalle righe, lì si costruiscono complesse giustificazioni accademiche.
È emblematico quello che sta avvenendo, almeno a partire dal 2019, con il cosiddetto “cammino sinodale”, che vorrebbe essere un percorso di rinnovamento dal basso di tutta la Chiesa cattolica, autodefinitosi come “vincolante”. Per volontà del suo centro organizzativo, il “Comitato centrale dei cattolici tedeschi” (non è una battuta ironica: Zentralkomitee der deutschen Katholiken) i nuclei tematici di tale cammino sono la lotta agli abusi, lo “smantellamento del potere nella Chiesa” (sic!), le forme di vita del clero (il celibato), la morale sessuale e il ruolo delle donne nella Chiesa.
Il clero e i fedeli su tutto questo sono spaccati, tra una maggioranza che vede nel sinodo l’occasione di una destrutturazione della Chiesa e della sua ricostruzione a tavolino, e una minoranza che vorrebbe rimanere fedele alla costituzione soprannaturale della Chiesa stessa.
È una frattura che si è prodotta negli anni successivi al Concilio, all’interno di un’ermeneutica della discontinuità e che viene magistralmente descritta nell’autobiografia di Josef Ratzinger (La mia vita, 1997), e nei suoi volumi-intervista in termini personali e molto efficaci. Nel suo discorso del 22 dicembre 2005 alla curia romana, Benedetto XVI avrebbe, poi, così sintetizzato il nucleo della questione: “Perché la recezione del Concilio, in grandi parti della Chiesa, finora si è svolta in modo così difficile? Ebbene, tutto dipende dalla giusta interpretazione del Concilio (…). I problemi della recezione sono nati dal fatto che due ermeneutiche contrarie si sono trovate a confronto e hanno litigato tra loro (…). Da una parte esiste un’interpretazione che vorrei chiamare ‘ermeneutica della discontinuità e della rottura’; essa non di rado si è potuta avvalere della simpatia dei mass-media, e anche di una parte della teologia moderna. Dall’altra parte c’è l’‘ermeneutica della riforma’, del rinnovamento nella continuità”.
Per modernizzare la fede, la si è staccata dalla vita quotidiana; per rifondare la partecipazione dei laici, se ne è clericalizzato il ruolo (sembra che l’unico spazio per essere laici cristiani sia avere un posticino sull’ambone). Il tutto non è senza risvolti economico-finanziari, dal momento che le due chiese tedesche (quella evangelica e quella cattolica) non sono direttamente finanziate dallo Stato, ma si giovano delle Kirchensteuer, le tasse ecclesiastiche. Queste sono riscosse dallo Stato per conto delle chiese stesse, tanto che, chi volesse sfuggirvi, deve dichiarare di non essere più membro di una Chiesa (Dichiarazione di uscita dalla Chiesa o Kirchenaustritt). Questo particolare, già prima delle ragioni esistenziali, spiega il numero crescente, di anno in anno, di fedeli che “escono dalla Chiesa”: eppure nel “cammino sinodale” si insiste che occorre recuperare i fedeli modernizzando la morale e la struttura della Chiesa.
D’altro canto, un po’ come in tutto l’Occidente, anche nei paesi di lingua tedesca il post-Concilio è stato preso a pretesto per distruggere la religiosità popolare, ridicolizzando usi e tradizioni secolari, ma qui, più che altrove, questa operazione si è data motivazioni teologico-accademiche. Da tempo all’alternativa vero/falso, bene/male, si è sostituita quella tra progressista/conservatore, persino nelle omelie domenicali. È una delle forme del “relativismo culturale” denunciato dall’allora card. Joseph Ratzinger.
Ma non c’è solo questo giudizio a fare la differenza con tanta parte del mondo teologico tedesco. C’è di più, ed è l’umiltà di riconoscere quanto siano essenziali alla fede i legami che la generano e la alimentano e che sono quel che rende la “tradizione” una realtà viva, evitando che si riduca a fredda precettistica. Nel suo “Testamento spirituale” Benedetto XVI questi legami ce li ricorda uno a uno, con affetto e gratitudine. Ed è in nome di questi legami che Benedetto XVI manifesta la sua preoccupazione per la sua terra d’origine: “Ringrazio la gente della mia patria perché in loro ho potuto sempre di nuovo sperimentare la bellezza della fede. Prego affinché la nostra terra resti una terra di fede e vi prego, cari compatrioti: non lasciatevi distogliere dalla fede”.
Sono parole che suonano per quel che sono: un semplice atto d’amore, perché non è l’organizzazione a salvare, men che meno una “ri-organizzazione” dal basso, ma solo la fede. Quel che rendeva Joseph Ratzinger così diverso da tanti altri accademici tedeschi era la sua capacità di coniugare cultura, serietà scientifica e fede dei semplici. Nell’Alta Baviera – che è poi la sua Heimat, la patria dove si sentiva a casa –, rammentano come amasse esprimersi in dialetto bavarese, ma anche le sue visite ai santuari mariani, come Altötting. Qualche anno fa, prima che Ratzinger fosse eletto papa, il card. Scola lo definì “un figlio genuino del popolo cattolico bavarese”. Sempre nella sua autobiografia, l’allora card. Ratzinger ricorda come la fede gli sia stata trasmessa: “L’anno liturgico dava al tempo il suo ritmo e io ho percepito questo fatto fin da bambino, anzi, proprio da bambino, con grande gioia e riconoscenza. In Avvento, al mattino presto venivano celebrate solennemente le Messe Rorate nella chiesa ancora buia, illuminata solo dalle candele. (…) Ogni anno il nostro presepe aumentava di qualche figura ed era sempre motivo di grande gioia andare con papà nel bosco a raccogliere muschio, ginepro e ramoscelli di abete. In Quaresima, di giovedì venivano organizzati dei momenti di adorazione, detti dell’Orto degli Ulivi, con una serietà e una fede che mi toccavano profondamente. Particolarmente impressionante era poi la celebrazione della Resurrezione, la sera del Sabato Santo” (p. 16).
Se a tutto questo aggiungiamo la dimensione del culto mariano e l’amicizia devota e sincera con Giovanni Paolo II, abbiamo la misura di un pensiero teologico che sapeva essere esegesi autentica di un’esperienza di salvezza e le ragioni della sua diversità rispetto alla pretesa di salvare il mondo inseguendone i modelli culturali.
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