Ho incontrato per la prima volta Joseph Ratzinger nel 1972. Già allora non mi era totalmente sconosciuto. Il suo libro Introduzione al Cristianesimo era caldamente raccomandato da don Giussani ai suoi amici della nascente Comunione e Liberazione. Una simpatia da lontano si consolidò in amicizia a partire dalla fondazione della rivista Communio. Communio la fondarono alcuni dei maggiori teologi tedeschi e francesi (De Lubac, von Balthasar, Ratzinger…) e un gruppetto di ragazzini italiani di CL ( Scola, Bagnoli, Negri e c’ero anche io). C’era una edizione tedesca ed una italiana a cui presto se ne aggiunse una francese (Marion, Armogathe, Brague).



Quello che ci univa era la volontà di realizzare il Concilio in un’esperienza di Chiesa viva. Qui convergevano la visione di Giussani e quella di Ratzinger. Il cristianesimo è l’avvenimento di una vita nuova che si può incontrare nella comunità cristiana. Esso genera una cultura, un’azione caritativa, una missione nel mondo ma non coincide con esse. Questo avvenimento è irriducibile a qualsiasi forma di sapienza umana. È avvenuto una volta in Palestina duemila anni fa ma continua ad avvenire nella storia della Chiesa  e del mondo. La Chiesa, certo, ha una sua struttura consolidata, ma è soprattutto un avvenimento presente oggi che si proietta verso il futuro in cui tutti gli uomini sono chiamati a diventare parte del popolo di Dio.



Da questa visione deriva anche un modo di intendere il lavoro dell’intellettuale ed il compito di una rivista di teologia. Da un lato il teologo preserva la memoria di quello che è accaduto all’origine. Per un altro ascolta ciò che lo Spirito sta generando nel tempo presente. Di qui l’amicizia fra Ratzinger e Giussani. Per Giussani, Ratzinger era colui che garantiva che il Movimento non si distaccasse dalla grande Tradizione, che non si facesse un Cristo sulla propria misura e non si trasformasse in ideologia. Per Ratzinger Giussani era l’antidoto contro la musealizzazione del cristianesimo proposta da alcuni o contro il cedimento allo spirito del tempo proposto da altri. Era la possibilità di ascoltare lo Spirito di Dio al lavoro nel tempo presente. Per usare il linguaggio di Papa Francesco, Ratzinger garantiva il Movimento contro il rischio dell’autoreferenzialità mentre Giussani offriva la possibilità di dialogare con una Chiesa in uscita.



Li univa anche una certa comprensione della modernità. Giussani, nel dialogo intenso con i suoi giovani amici, istintivamente viveva la modernità come problema e domanda e non come risposta alla crisi della Chiesa. La stessa percezione della modernità aveva Ratzinger, filtrata attraverso il suo dialogo con i grandi pensatori dell’epoca moderna. Alimentava questa percezione della modernità come dramma, piuttosto che come possesso soddisfatto di sé, la passione per la musica, in cui le contraddizioni dell’animo umano si dispiegano indicando una conciliazione che sta oltre il termine dell’opera e risuona nel silenzio.

Ricordo che i primi numeri di Communio avevano in fondo delle pagine bianche. L’idea era che esse fossero riempite dalla riflessione del lettore e che il lavoro dell’intellettuale di professione che scriveva gli articoli dovesse continuare in quello del Popolo di Dio che riflette sulla propria esperienza di vita. Questo rifletteva la convinzione che il popolo di Dio fosse il luogo teologico per eccellenza e che la cultura dovesse essere – come diceva Giussani “riflessione sistematica e critica sulla esperienza”.

Questa amicizia si approfondì quando san Giovanni Paolo II nominò Ratzinger prefetto della Congregazione per la dottrina della fede. Mi ha fatto piacere leggere di recente, in una intervista di Benedetto XVI, il suo ricordo dei primi tempi passati a Roma e dei suoi amici Giussani e Buttiglione che lo accompagnarono con il loro affetto in quel difficile passaggio.

Il lascito più commovente dell’amicizia fra Benedetto XVI e Giussani è stata l’omelia che Ratzinger ha tenuto ai funerali del suo amico a Milano.

Poi Joseph Ratzinger è diventato Benedetto XVI, l’ultimo (forse) Papa europeo. Il suo magistero condensa in un certo senso la grande avventura dello spirito europeo e ne ripropone il senso. Riprende il grande tema del Concilio: Cristo come salvezza dell’uomo moderno, cammino che permette ai grandi valori della modernità di non perdersi e distruggere se stessi. Benedetto XVI parla all’Europa come Gesù ha parlato al Popolo di Israele: come avrei voluto raccogliere questo gregge disperso di pecore senza pastore…

L’Europa però non ha raccolto questo invito. La Chiesa diventa in Europa sempre più piccola ed ininfluente. L’Europa diventa però sempre più piccola ed ininfluente nel mondo. Non crede più in se stessa, nella propria cultura e nella propria religione, sembra avere perso la voglia di avere figli e quindi di avere futuro. Cresce invece la Chiesa nel mondo: nuovi continenti e nuove nazioni chiedono di pensare la fede a partire dalla loro esperienza e dalla loro cultura.

Il passaggio dal pontificato di Benedetto XVI a quello di Papa Francesco ha proprio questo significato simbolico. Il rifiuto del Popolo di Israele agli inizi dell’era cristiana ha aperto lo spazio della missione ad gentes. San Paolo ha guidato la Chiesa in questo spazio e lo ha letto come misericordia di Dio che ritarda il tempo della sua manifestazione finale perché vuole dare a tutti i popoli la possibilità della conversione. Adesso il rifiuto dell’Europa apre lo spazio di una nuova missione ad gentes. Per vivere la globalizzazione la Chiesa ha solo bisogno di essere più fedele alla propria vocazione originaria, alla propria vocazione missionaria.

In questa luce la sintesi dello spirito cristiano/europeo realizzata da Benedetto XVI acquista un nuovo significato. Le nuove nazioni non potranno svolgere la loro originale cultura cristiana se non assimileranno l’essenziale dell’eredità europea. Benedetto XVI (e prima di lui il teologo Joseph Ratzinger, la cui opera è strettamente connessa a quella di von Balthasar e di De Lubac) ha preparato, in un certo senso, il bagaglio essenziale di questa eredità che deve accompagnare il discepolo missionario nel suo cammino nel mondo.

Una parte importante di questa eredità è la lezione di metodo che scaturisce dalla amicizia fra Ratzinger e Giussani. Il nuovo pensiero adeguato alle sfide del tempo presente, la teologia del popolo che nasce come riflessione sistematica e critica sulla esperienza di fede del popolo di Dio, chiede un dialogo continuo e fecondo fra i Movimenti che lo Spirito suscita nella storia e la Tradizione in cui si conserva la memoria dell’Avvenimento originario che continuamente si ripresenta nella vita della Chiesa.

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