Ratzinger segno di speranza: un episodio a Madrid

Madrid, autunno 1999. Il vescovo ausiliare ed io stavamo tornando in macchina dopo aver visitato il Palacongressi di Madrid. Avevamo scelto quell’auditorium per ospitare una conferenza del prefetto della Congregazione per la dottrina della fede. Sarebbe stato un gesto pubblico rivolto alla città, nell’ambito del congresso internazionale che la Facoltà di Teologia “San Dámaso” dedicava all’enciclica Fides et Ratio. Non posso negare che eravamo un po’ preoccupati: non sarebbe stato uno spazio troppo ampio? C’erano quasi duemila posti a sedere, per ascoltare una relazione teologica che dovrebbe interessare solo gli addetti ai lavori…



La sera del 16 febbraio 2000, ben prima che conferenza cominciasse, ci fu chiaro che Joseph Ratzinger non era solo un teologo di professione o un cardinale di curia. I duemila posti erano tutti occupati, con persone nei corridoi e sulle scale. Fuori erano rimaste altre mille persone. Qualche vescovo arrivato in ritardo me lo raccontava, per metà sorpreso e per metà ammirato. Questo sovraffollamento mi costrinse a scusarmi per iscritto con alcune persone importanti che erano state invitate ma non erano riuscite a entrare in sala. Mai in vita mia l’ho fatto più volentieri.



Senz’altro, quella sera ascoltammo una riflessione profonda su alcuni punti nodali della dottrina cristiana: fu una splendida conferenza. La ricchezza dell’argomentazione e la capacità di dialogo e confronto con il mondo classico e moderno delle scienze umane ci permisero di capire perché alcuni intellettuali europei agnostici o non cristiani avevano una così grande stima del pensatore Joseph Ratzinger.

Tuttavia, fu molto di più di una semplice conferenza accademica. I partecipanti avevano potuto ascoltare una testimonianza di Gesù Cristo presente nella sua Chiesa, qui ed ora. Avevamo davanti agli occhi un testimone ecclesiale di quell’amore per la ragione tipico della migliore teologia cattolica, che ragiona bene grazie alla fede, non a dispetto di essa. Ratzinger si mostrava come un credente che faceva un uso umano della ragione, e ci spinse a imparare quel modo integralmente umano e cristiano di dialogare con le grandi questioni del nostro tempo.



La testimonianza cristiana rimanda l’interlocutore alla Verità vivente che è Gesù Cristo. Nel caso di Ratzinger, questo riferimento al vero teneva conto delle circostanze storiche del presente. In altre parole, non si limitava a esporre idee giuste, ma offriva giudizi sulla realtà sociale, culturale ed ecclesiale del momento. In questo modo era diventato un punto di riferimento per il cammino di fede di tanti cristiani, sia nel mondo accademico che nella vita quotidiana delle comunità ecclesiali. Quando uscimmo dal Palacongressi non era cresciuta in noi soltanto la conoscenza di alcuni temi importanti, ma anche la nostra persona. Questa era la differenza che i partecipanti avevano presentito decidendo di venire in tantissimi ad ascoltarlo. Un’aspettativa che risultò puntualmente confermata dall’intervento di Ratzinger.

Il magistero testimoniale di Benedetto XVI

Cinque anni dopo quell’episodio di Madrid, alla morte di san Giovanni Paolo II, il prefetto della Congregazione per la dottrina della fede divenne Papa Benedetto XVI. I suoi otto anni di pontificato sono stati pieni di ricchezza pastorale e dottrinale e oggi, dopo la sua morte, cominciamo a intravvedere quali sono le chiavi di lettura che segneranno il suo posto nella storia dei pontefici.

I suoi anni da Papa hanno espresso soprattutto una profonda concezione del ministero petrino: lo ha vissuto come un umile servitore che portava sulle spalle il peso del servizio alla Chiesa, e ha rinunciato all’esercizio di questo ministero con un gesto sorprendente e audace, quando le sue forze erano esaurite. Il gesto storico della rinuncia è stato spesso interpretato come una dimostrazione della sua libertà o della sua umiltà. Non c’è dubbio che Benedetto fosse libero e umile, proprio perché tali virtù erano il riflesso nella sua persona di Colui al quale rimandava il gesto: lo Spirito di Cristo che guida la sua Chiesa. In altre parole, la sua decisione ci ha “costretto” a riconoscere la verità del Vangelo, ci ha aiutato a riconoscere che Cristo rimane contemporaneo, che è nell’oggi della storia e non è un ricordo del passato.

Non dimentichiamo che di fronte al suo gesto eravamo rimasti tutti senza parole e abbiamo dovuto correggere i nostri schemi mentali. Abbiamo dovuto dare una risposta personale ad un evento sorprendente. Rispettando la dovuta analogia, è con questo che hanno avuto a che fare coloro che hanno incontrato Gesù o gli apostoli, oppure coloro che si sono trovati davanti alla predicazione di San Paolo o dei grandi testimoni della tradizione cristiana. Davanti a loro, gli schemi mondani cedono e bisogna chiedersi: ma chi è questo Dio così reale, così decisivo per la vita di un uomo da permettere un simile gesto di libertà?

Questo fatto illumina le parole che Benedetto XVI ha proposto nel corso del suo ministero di padre e pastore della Chiesa, e viceversa. La sua dottrina consente di inquadrare quel gesto singolare, poiché continuava ad offrire, innanzitutto, una testimonianza dell’apertura della ragione umana, nella costante ricerca della verità per vivere nella libertà e fare il bene. Lo ha ribadito nel suo dialogo con le culture, con la scienza e con le religioni del mondo.

La stima per la ragione gli ha permesso di incorporare nel magistero termini della riflessione contemporanea: così la parola “avvenimento” acquista un nuovo significato dottrinale e il valore “performativo” del linguaggio viene proposto per spiegare l’azione della Parola di Dio e dei sacramenti. Questa stessa sensibilità gli ha permesso di riferirsi nei testi magisteriali a interlocutori come Nietzsche o altri pensatori lontani dalla fede. Ma ha avuto anche tanti scambi epistolari e incontri con esponenti della cultura contemporanea non meno lontani.

Il “quaerere Deum” è stato un tema centrale del pontificato. Di fronte al bisogno del cuore umano di trovare un senso alla vita, esso annuncia che Dio è venuto incontro a noi, come l’unica cosa necessaria per una vita pienamente umana, un Dio che è amore (Deus caritas est) e che è al tempo stesso la ragione ultima della speranza (Spe Salvi) e il motore di una civiltà dell’amore e della verità (Caritas in veritate). I suoi documenti mettono in relazione l’annuncio cristiano con i problemi di oggi: la secolarizzazione delle culture, la secolarizzazione interna della Chiesa, la crisi antropologica e i problemi ambientali e sociali, la giusta comprensione della politica, temi che hanno trovato continuità durante il pontificato di Francesco.

Senza dubbio, una delle novità del suo insegnamento è la grande opera su Gesù di Nazareth. A rigore, non può essere considerato un testo magisteriale, ma un’opera teologica di un dottore privato. Ma è altrettanto vero che, essendo stata pubblicata durante l’esercizio del pontificato, con il desiderio di dare un insegnamento sul nucleo della fede che è il mistero di Gesù Cristo, e rivolto a tutti gli uomini, ha avuto un eccezionale impatto teologico, educativo, catechetico e kerigmatico. È un esempio splendido della sensibilità del Papa tedesco e della sua passione nell’offrire una testimonianza di Gesù che sia allo stesso tempo radicata nella tradizione biblica e patristica e aperta all’esegesi contemporanea.

Un’altra caratteristica inconfondibile del pontificato è la preoccupazione per l’adeguata ermeneutica del Concilio Vaticano II e il suo sviluppo attraverso una dinamica di riforma basata sulla Rivelazione e sulla vita sacramentale (Verbum Domini, Sacramentum Caritatis). Benedetto XVI si pone come uno dei grandi interpreti del rinnovamento conciliare e dell’approfondimento del Vaticano II, che è ancora aperto a sviluppi fecondi per l’annuncio missionario agli uomini del nostro tempo.

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