Benedetto XVI ci lascia in eredità un pensiero animato da un non comune dinamismo creativo, che siamo chiamati a far fruttificare nelle sue prospettive più feconde, proiettate verso il futuro che ci attende. È un pensiero sapientemente teologico nel suo indirizzo di fondo, ancorato alla riproposta del cuore essenziale dell’avvenimento cristiano. E d’altra parte è un pensiero tutt’altro che chiuso in uno specialismo per addetti ai lavori, come dimostra il fatto che, partendo dalle sue linee maestre, Benedetto XVI ha saputo interrogare in modo acutamente originale la realtà complessiva del mondo che aveva di fronte.
Con il suo insegnamento e la sua opera intellettuale non si è limitato a ridare spessore e capacità di incidenza alle modalità tradizionali di rapporto tra l’esperienza di una fede incarnata e la vita concreta degli uomini a cui essa si rivolge. È stato in grado di aprire piste nuove e ha cercato di tracciare ipotesi coraggiosamente stimolanti per dare respiro all’innesto della Chiesa nei travagli del presente; ipotesi non prive di quei tratti anticonformisti e di quel desiderio del rischio sulle frontiere più avanzate della missione che a Ratzinger hanno procurato, già dai primi passi del suo itinerario di servizio ai tempi del concilio Vaticano II, la sorda diffidenza dei settori più rigidamente conservatori delle élite cattoliche (e di quella parte della gerarchia che ne è l’espressione).
Il gusto dell’approfondimento, la passione per lo scavo anche in direzioni inesplorate e la disponibilità al confronto con chiunque potesse proporre punti di vista solidi e promettenti, anche fuori dal recinto dell’istituzione ecclesiastica, si riflettono in modo emblematico nell’ampia riflessione sul fenomeno della modernità nel suo insieme, che è stato l’oggetto di un investimento continuo di interesse da parte di papa Benedetto, fino alle prese di posizione elaborate negli ultimi anni della sua esistenza.
Riflettere sulla fisionomia e il destino della modernità è stato per lui una questione di rilievo cruciale, perché il moderno è l’orizzonte obbligato in cui la fede è chiamata a calarsi se vuole parlare agli uomini e alle donne del nostro tempo come una parola viva, portatrice di un messaggio che non aspira a niente di meno che alla salvezza integrale del soggetto umano, intercettando la globalità delle domande e dei bisogni che si sprigionano nello spazio del suo esistere.
È doveroso a questo riguardo rimarcare che Benedetto XVI ha saputo mettere in evidenza lo scheletro di sostegno e le nervature nascoste nel cantiere del mondo moderno con una ricchezza di articolazioni che forse non trova uguali nel contesto della cultura intellettuale di matrice cristiana dell’ultimo Novecento. Lo snodo decisivo può essere individuato nel fatto che papa Benedetto è stato capace di sporgersi ampiamente al di là di una visione polemica dell’approdo alla modernità visto solo o prevalentemente come opera di dissoluzione del tessuto organico della cristianità tradizionale. Questo schema negativo della crisi elevata a chiave di volta dominante dell’evoluzione storica ha pesato sul fermento cristiano nell’epoca contemporanea, rischiando spesso di indurre a far coincidere la sua energia di rinnovamento con la tendenza al ripristino delle configurazioni dottrinali e delle prassi ecclesiali maturate in contesti di civiltà ormai lasciati alle spalle.
Invece Benedetto XVI con lucido realismo ha riconosciuto che il mondo moderno non è riducibile a una congiura ordita da oscure ideologie ostili contro il perpetuarsi del fatto cristiano nella storia. Al suo interno ha ospitato (e probabilmente continua a ospitare) slittamenti di mentalità e strategie di potere che producono come effetto la marginalizzazione, se non lo sbriciolamento delle identità religiose. Ma la modernità è il panorama che anche queste identità hanno contribuito in prima persona a modellare, intrecciandosi e su molteplici linee di tensione entrando in conflitto con le altre forze venute ad affiancarsi sulla scena della vita collettiva: il volto contrastato del nostro oggi porta impresso nei suoi lineamenti il marchio di una genealogia tuttora segnata dallo stretto connubio con il patrimonio della fede da cui discendiamo.
Come risulta dai geniali quadri di sintesi offerti per esempio in Chiesa, ecumenismo e politica (1987) o nei volumi 2-3 della serie “Testi scelti” più di recente curata da Cantagalli (2018-2021), ciò che è emerso dall’incontro-scontro tra le diverse anime entrate a comporre il Dna del mondo moderno è il pieno recupero di quello che Ratzinger ha etichettato come il “bilanciamento dialettico” tra le spinte di auto-organizzazione del mondo politico-secolare e la specifica, indipendente, originalità propositiva dell’avvenimento cristiano che si radica nella società umana. La rottura della simbiosi confessionale tra trono e altare, che faceva del principio religioso il cemento vincolante di un ordine sociale sacralizzato, ha fatto riemergere il dualismo costitutivo tra la sfera del potere di Cesare e lo spazio della libera espressione delle opzioni di fede aperte al trascendente; “dualismo” che è stato la grande conquista di rottura introdotta dalla rivoluzione culturale cristiana, fin dagli inizi del suo primo sviluppo nel mondo antico.
Il culmine della modernità secolarizzante, in questo senso, può essere visto come il paradossale recupero di quella “forma” originaria dell’autenticità cristiana che, nel corso di un lungo cammino storico, ha finito presto con l’annebbiarsi ed è andata dispersa, cedendo a compromessi e semplificazioni da cui è risultata non di rado sminuita la sua più luminosa attrattività contagiosa. Alleggerita, invece, di tante proiezioni e sovrastrutture secondarie, la fede è messa nelle condizioni di ritrovare il suo nesso irrinunciabile con la libertà di coscienza del soggetto umano. Ripartendo dal centro della capacità di irradiazione della novità cristiana nel mondo, il credente partecipa alla costruzione della Ecclesia e nello stesso tempo, senza alcuna dicotomia ispirata da desideri di fuga dal mondo, concorre con l’intelligenza di tutto il suo spirito di carità ad animare, insieme a tutte le altre forze concorrenti che incontra nell’arena pubblica, la vita collettiva di una città secolare ormai pluralizzata, bisognosa di riempirsi di contenuti e indirizzi ideali per non implodere su sé stessa, precipitando in un sistema di potere sregolato e disumanizzante (Deus caritas est, 28-29).
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