Benedetto XVI lascia questo mondo con funerali solenni ma sobri, ultimo segno di quell’umiltà che ha contraddistinto la sua persona. Essi rappresentano il segno tangibile del testimone della verità. Aveva scelto la verità come motto episcopale, diventandone in seguito il custode, come prefetto della Congregazione per la dottrina della fede, fino al compito, giunto nel 2005, di confermare i fratelli nella verità, secondo il mandato proprio di Pietro.
La verità non è geometria, disse una volta; la verità è amore e l’amore non si rivolge all’idea, come pensava Platone. L’amore per Ratzinger era tutto per la persona di Cristo, Verbo fatto carne. La fede è un rapporto con una presenza storica, come egli stesso scrisse nella sua prima enciclica Deus caritas est: “All’inizio dell’essere cristiano non c’è una decisione etica o una grande idea, bensì l’incontro con un avvenimento, con una Persona, che dà alla vita un nuovo orizzonte e con ciò la direzione decisiva”.
In questa amicizia Benedetto XVI ha sperimentato la pienezza della sua esistenza, comunicata attraverso tutto il suo essere. La mitezza del suo sguardo, la dolcezza del suo cuore, l’ampiezza della sua ragione, l’umiltà nel riconoscere le sue debolezze, erano tutte manifestazioni visibili della sua fede. La decisione di lasciare il pontificato è stato un gesto di libertà possibile solo all’interno di questa relazione amorosa.
Giovane teologo, partecipò ai lavori del Concilio come consulente teologico dell’arcivescovo di Colonia Joseph Frings, auspicando che la nuova sintesi tra fede e ragione espressa nel Concilio portasse frutti immediati. Diversamente, l’Europa si apprestava a vivere la grande rivoluzione del ’68 che metteva in crisi le sue strutture culturali e spirituali fondamentali attraverso una vera e propria mutazione antropologica in cui il soggetto si concepiva autocentrato, cercando la redenzione nella Politica. Questo pensiero penetrava sin dentro la Chiesa, tanto da spingere Paolo VI a proclamare nel ’68 l’anno della Fede. Da qui il dibattito post-conciliare tra un presunto “spirito del Concilio”, che pretendeva di andare oltre i testi del Concilio, giustificando le spinte più progressiste; e chi invece condannava il Concilio stesso, vedendo in esso una frattura nella storia della Chiesa. In questa disputa nascerà la missione di Ratzinger in difesa della giusta ermeneutica del Concilio, quale aggiornamento del patrimonio storico della Chiesa con cui si realizzava una sintesi feconda tra fede e modernità.
La speranza di avvio di questa “sana modernità” preparata dal Concilio maturerà nuovamente con il crollo del muro di Berlino, quando il fallimento dell’ultima grande ideologia moderna liquidava le pretese utopiche di tutta un’epoca. Una nuova cesura storica tuttavia segnava la coscienza europea. Si entrava nella cosiddetta “postmodernità”, tempo in cui l’individualismo diventava la misura di tutto, sfociando in un nichilismo che metteva in crisi ogni certezza e affidando le speranze di redenzione non più alla Politica come nel ’68, ma alla Tecnica.
Tale cambiamento epocale costituiva per Ratzinger una sfida senza precedenti che avrebbe finito per mettere in crisi i postulati stessi della modernità, la ragione e la libertà, che ora andavano salvaguardati andando fino alle loro radici sorgive.
Consapevole che per l’Europa si apriva un tempo di grande responsabilità individuò nella figura di Benedetto la chiave di volta di una civiltà europea in crisi, sicuro che non era più sufficiente un richiamo di natura morale. “Il moralismo politico – disse Ratzinger mentre si apprestava a diventare papa – come l’abbiamo vissuto e come lo viviamo ancora, non solo non apre la strada a una rigenerazione, ma la blocca. Lo stesso vale, di conseguenza, anche per un cristianesimo e per una teologia che riducono il nocciolo del messaggio di Gesù, il ‘Regno di Dio’, ai ‘valori del Regno’, identificando questi valori con le grandi parole d’ordine del moralismo politico, e proclamandole, nello stesso tempo, come sintesi delle religioni. Dimenticandosi però, così, di Dio, nonostante sia proprio Lui il soggetto e la causa del Regno di Dio. Al suo posto rimangono grandi parole (e valori) che si prestano a qualsiasi tipo di abuso”.
Per arginare la crisi della società europea e realizzare un umanesimo integrale, occorreva piuttosto la testimonianza di uomini che “attraverso una fede illuminata e vissuta” fossero capaci di rendere credibile la fede e di riavvicinare il mondo a Dio.
La testimonianza di Benedetto XVI ne fu un esempio luminoso, dialogando con tutti e viaggiando nelle grandi capitali europee per mostrare la pertinenza della fede rispetto alle esigenze dell’uomo moderno in crisi. Fu un grande maestro di umanità, difendendo la dignità dell’uomo e la centralità della ragione, riconoscendo i meriti dell’Illuminismo e presentandosi in un certo senso come l’ultimo dei moderni, in nome del Dio Logos. A Parigi richiamò la cultura umanistica ad aprirsi alla dimensione trascendente per non finire decapitata; a Londra evocò la libertà di coscienza rispetto alle pretese del potere politico e ribadì l’alleanza tra la ragione e la Rivelazione nella difesa dei diritti umani; a Berlino denunciò i limiti del positivismo giuridico, mostrandone l’insufficienza per una autentica ecologia dell’uomo; a Praga parlò di Europa come casa comune e patria della libertà.
Rimase per lo più inascoltato e anzi spesso venne criticato, mentre l’occidente manifestava sempre più apertamente i segni di una crisi inarrestabile che arriverà pian piano a mettere in crisi la stessa idea di democrazia e di ragione scientifica, come lo stesso Benedetto XVI aveva previsto.
Davanti agli scandali che scuotevano la Chiesa, tuttavia, le sue condizioni precarie chiedevano l’esercizio della pazienza e la virtù dell’umiltà come di un abbandono che per lui era pieno di fiducia. In un celebre intervento del 2007 aveva infatti profeticamente affermato: “mi sembra che dobbiamo combinare la grande umiltà del Crocifisso, di una Chiesa che è sempre umile e sempre contrastata dai grandi poteri economici, militari ecc., ma dobbiamo imparare insieme con questa umiltà anche il vero trionfalismo della cattolicità che cresce in tutti i secoli. Cresce anche oggi la presenza del Crocifisso risorto, che ha e conserva le sue ferite; è ferito, ma proprio così rinnova il mondo, dà il suo soffio che rinnova anche la Chiesa nonostante tutta la nostra povertà”.
In questa luce, gli ultimi anni di Benedetto non sono il segno del fallimento, ma la condizione per cui il seme che muore porta frutti alla Chiesa e all’Europa di domani.
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