Viene dal Benelux, più precisamente dai vescovi fiamminghi, la prima vera grande rottura della comunione con la Chiesa di Roma. I vescovi delle Fiandre hanno infatti approvato una liturgia di benedizione delle coppie omosessuali contravvenendo a quanto appena un anno fa il dicastero per la Dottrina della fede, con l’avvallo del Papa, aveva esplicitamente dichiarato.



Si tratta di un atto di per sé non così dirompente – l’intenzione è quella di perseguire “una Chiesa ospitale” senza alcun riconoscimento equiparabile al matrimonio – ma di un gesto che formalmente segna un precedente. Ed è il precedente il punto. Infatti la questione non è neppure sul che cosa è stato o non è stato permesso, quanto sull’idea di Chiesa che un simile provvedimento sottende.



Negli ultimi anni la Chiesa cattolica si è impegnata molto sul fronte della sinodalità, sottolineando a più riprese che non si crede da soli, che da soli – dinnanzi alla sfide del nostro tempo – si prendono abbagli o si soccombe. Questo ha animato un processo virtuoso che ha portato alla riforma della Curia, alla revisione dei criteri con cui sono scelti i cardinali, all’indizione di un sinodo dei Vescovi “metodologico” sulla sinodalità. L’intento non è quello di inserire la Chiesa in un processo democratico – non sarebbe nella Sua più profonda natura –, quanto di comprendere che mai come oggi occorre imparare a stimare di più il legame che c’è fra noi rispetto a quanto io possa pensare o ritenere. È molto più importante appartenere che avere ragione, è molto più decisivo seguire che dire la cosa giusta.



Purtroppo l’avvento delle nuove interazioni digitali lascia intendere che ciò che ultimamente conta è l’espressione della mia posizione, del mio pensiero, delle mie intuizioni. I cristiani, invece, hanno sperimentato che ciò che salva la vita è la partecipazione ad un’esperienza di salvezza che non è riducibile alle mie giuste elucubrazioni, ma che è un fatto che mi precede e che mi accompagna. Solo l’esperienza di un’appartenenza fornisce al cuore dell’uomo l’identikit di una Presenza che è possibile poi riconoscere nel cammino della storia e della vita. Frequentando ogni giorno la comunità cristiana io imparo i tratti inconfondibili di quel volto che poi, una volta che sono da solo nei marosi della quotidianità, posso riscoprire come vivo e presente. Le fughe in avanti, anche quando vengono da vescovi o da cardinali, più che un pericoloso strappo che mette in discussione il potere costituito sono una ferita al metodo della fede che è, appunto, l’essere-nella-Chiesa.

Le domande che vengono da tantissime persone cristiane che vivono l’esperienza dell’omosessualità e hanno intessuto legami significativi per la propria vita non si possono derubricare né con la severità del censore, che è al riparo dalla tempesta solo perché conosce la dottrina, ma neppure con la presunzione del moderno, che crede che ogni cosa che sorge nel tempo sia sempre da legittimare e mai da interrogare, spronare, far crescere. A ben vedere la legittimazione di quel rito di benedizione offende proprio quelle coppie che crede di poter ospitare, in quanto si arroga il diritto di risolvere un’istanza così profonda – come quella di chi chiede di essere riconosciuto – con una liturgia asettica e priva della forza che la Comunione ecclesiale è capace di donare agli atti di un popolo che si pone dentro la storia.

Le fughe in avanti possono essere molto belle sui giornali. Lasciano l’amaro in bocca a chi, al contrario, vorrebbe che la propria vita non fosse ridotta ad uno slogan, ad un’esibizione, ad un provvedimento che – in fondo – parla alla tristezza del cuore proponendo la solitudine delle decisioni. Quando invece – i cristiani questo lo sanno bene – tutta la mestizia della nostra anima trova sollievo solo nella festa preparata da Dio. Nella Comunione con una storia così antica che sembra impossibile poter abbracciare ancora oggi. E chiamarla semplicemente “Chiesa”.

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