Chi ha fatto il pieno in questi giorni avrà notato che i prezzi praticati alla pompa della benzina sono aumentati. In autostrada la media in self service supera i 2 euro al litro. Altrove siamo invece a un passo da 1,92 euro/litro. Eppure, le quotazioni del petrolio, a parte la fiammata dello scorso venerdì prodromo dell’offensiva di missili e droni iraniani verso Israele e rientrata al lunedì mattina e quella ancora più fugace alla notizia del missile israeliano che ha colpito il territorio iraniano, sono rimaste stabilmente sotto i 90 dollari a barile.



Può sembrare inconsueta questa divergenza tra la tendenza rialzista della benzina e il corso stabile del greggio. Nessuna spiegazione geopolitica complessa, né astruse ipotesi complottistiche dei Paesi produttori così come presunti extra-profitti dei benzinai.

Innanzitutto, bisogna distinguere tra materia prima e prodotto raffinato, che è poi il prodotto finale, benzina o jet fuel, che acquistiamo e usiamo per riempire i serbatoi di automobili e aerei. Senza la raffinazione il petrolio non ha sbocco. Mentre non c’è una crisi di offerta del petrolio a livello mondiale, c’è invece una crisi della capacità di raffinazione. È appunto da queste strozzature che deriva l’aumento del prezzo della benzina e non da una carenza di produzione di barili di .



A spiegarlo con una metafora calzante è Salvatore Carollo, esperto di trading energetico e autore dei libri “C’era una volta il prezzo del petrolio” (Scheiwiller, 2008) e di “Understanding Oil Prices: A Guide to What Drives the Price of Oil in Today’s Markets” (Wiley 2012). “È come se avessimo una diga con un lago pieno d’acqua, ma senza una sufficiente capacità di trasporto dell’acqua per farla arrivare in città. Avremmo eccesso di acqua a monte e siccità a valle. Additare la mancanza di pioggia a causa dei cambiamenti climatici sarebbe ridicolo”.



La domanda mondiale di prodotti finiti dal petrolio si aggira poco sopra i 100 milioni di barili/giorno. E la capacità produttiva mondiale è allineata. Mentre la capacità di raffinazione mondiale disponibile si aggira fra 83 e 85 milioni di barili/giorno. Negli ultimi 5 anni, i Paesi dell’Ocse, complice una campagna green martellante, hanno perso due milioni di barili/giorno di capacità nel corso degli ultimi 5 anni. È proprio lo scostamento tra 15 e 17 milioni di barili/giorno che spinge verso l’alto i prezzi della benzina e non una minore disponibilità di materia prima. Il petrolio che non viene trasformato rimane allo stato di materia grezza nelle scorte sparse in giro per il mondo su navi petroliere in navigazione o galleggianti al largo. Mentre le scorte commerciali mondiali di benzina presso i sistemi di raffinazione sono ai minimi livelli degli ultimi 10 anni e non c’è nessuna prospettiva che possano essere ricostituite in tempi utili per la campagna estiva.

Carollo punta il dito sulla miopia dei governanti delle economie sviluppate, e dell’Italia in particolare, che hanno sottovalutato la strategicità del disporre di capacità di raffinazione in cui trasformare il greggio in prodotti finiti che servono al proprio mercato. “L’Italia è stata per decenni il principale Paese raffinatore d’Europa ed esportatore di benzina e gasolio verso i mercati redditizi del Nord Europa e del Nord America. Eravamo uno dei quattro hub petroliferi del mondo, insieme a Rotterdam, Houston e Singapore. Eravamo decisivi nel determinare il prezzo dei prodotti petroliferi e potevamo garantirci i rifornimenti al più basso prezzo possibile”. Ora paghiamo lo scotto dei mancati investimenti per garantire l’adeguamento alle nuove richieste di qualità dei mercati più redditizi così come della “trasformazione” di impianti in bio-raffinerie costata la scomparsa di 15 milioni di tonnellate di capacità a fronte degli 1,5 milioni di tonnellate di bio-raffineria rimasti: 13,5 milioni di tonnellate perse per sempre.

Infine, la vendita dei due gioielli rimasti nel panorama della raffinazione nazionale, l’impianto siciliano di Priolo e quello sardo di Sarroch a due società di trading internazionali estranee al mondo della raffinazione. Il che fa presagire che gli acquirenti dopo aver massimizzato i propri guadagni non si preoccuperanno dello sviluppo strategico dell’impianto nel medio e lungo termine.

Al prossimo “pit stop” riflettiamo sulle conseguenze di una politica industriale miope.

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