Il processo a Silvio Berlusconi e ad altri ventotto persone sulla presunta corruzione dei testimoni in relazione alle serate ad Arcore passate alla cronaca come “cene eleganti” non si doveva celebrare. E per un motivo che la sentenza di assoluzione – “perché il fatto non sussiste” – chiarisce molto bene: la pubblica accusa ha fatto confusione sullo stato dei soggetti ascoltati, una confusione così grande da inquinare l’intera procedura.



Per chiarire: l’impianto della procura poggiava su testimonianze che testimonianze non erano perché rese da soggetti coinvolti nel giudizio come imputati. Ora, anche uno studente di Giurisprudenza che abbia appena letto un qualsiasi testo di Diritto penale sa quello che è stato bellamente ignorato per anni: l’imputato ha il diritto di mentire alla Corte, il testimone no. Dunque, confondere una figura con l’altra è un errore tragico.



Proprio questo tragico errore è stato commesso con Berlusconi e compagnia in un percorso giudiziario durato undici anni con grande dispendio di denaro pubblico, conseguenze irreversibili nella vita privata e politica dell’ex presidente del Consiglio, derisione delle ragazze da lui beneficiate e bollate con il nome denigratorio di olgettine, un forte impatto negativo sul carattere del Paese, una certa squalificazione internazionale.

Il tutto per il desiderio irreprimibile di vedere Berlusconi condannato e alla berlina anche e forse soprattutto per il contenuto pruriginoso della vicenda marcata in modo indelebile dalla figura di Karima El Marough conosciuta come Ruby Rubacuori e presentata all’epoca dei fatti come nipote di Mubarak perché potesse essere agevolmente tirata fuori da un guaio in cui si era cacciata. Una trama troppo intrigante perché non ci si potesse ricamare sopra.



Per incastrare il Cavaliere, tutte le giovani donne prese nella rete della procura (Ruby compresa) sono state ascoltate come testimoni in merito alle liberalità da lui ricevute, secondo la tesi dell’accusa, perché non rivelassero nulla di scandaloso delle notti trascorse nella lussuosa residenza alle porte di Milano. E poiché il racconto delle ragazze non corrispondeva alle aspettative dell’accusa ecco scattare il reato di falsa testimonianza e corruzione.

Ma per rendere testimonianza occorrono i testimoni che per definizione sono cosa diversa dagli imputati per i quali il reato di falsa testimonianza non può nemmeno configurarsi. E poiché le olgettine figuravano come imputate nel processo – quindi con facoltà di mentire – le loro dichiarazioni non potevano essere soggette a valutazioni di veridicità. Insomma, gli accusatori hanno preso i classici fischi per fiaschi insistendo in un’azione impossibile.

Ora, sarebbe interessante conoscere qual è il grado di preparazione giuridica dei procuratori che oggi protestano contro l’unica decisione possibile dei giudici giudicanti: l’assoluzione. O il loro tasso di arroganza se la pretesa è di aver ragione contro il dettato della stessa legge. Perché delle due l’una: o si è trattato di un incidente dovuto a incompetenza o a un mancato blitz giudiziario per la fermezza della Corte a impedire una evidente forzatura.

Per chi ha a cuore le sorti di uno Stato di diritto il vero scandalo sta qui. E c’è da aver paura veramente di un ufficio dell’accusa gestito a questo modo, nell’ignoranza o nel disprezzo delle regole. Tanto più che nessuno pagherà per le evidenti responsabilità e sarà difficile mutare in tempi ragionevoli un modo di agire respinto a parole e praticato nei fatti. Non c’è da meravigliarsi che i grandi capitali si tengano lontani da un Paese così pericoloso.

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