La filosofia in terra di Francia è in riflessione continua. Vive sul presente e lo aggredisce alla luce dell’uno o dell’altro principio primo che fa da filo conduttore al pensiero di ogni singolo filosofo. Ciò le dà la possibilità di non essere immediatamente relegata agli scaffali delle biblioteche e di presiedere all’attualità, alimentando dibattiti, suscitando polemiche, dando vita a simpatie quanto a vigorose antipatie. A Parigi c’è sempre una battaglia per l’Hernani di turno. E di vera battaglia si tratta, con tanto di sputi e torte in faccia, come è accaduto per Alain Finkielkraut, la cui stessa ammissione all’Académie française ha generato una levata di scudi da parte della “gauche divine” (copyright Baudrillard) e se non fosse stato per il compianto Jean d’Ormesson, che ha pubblicamente dichiarato di essere pronto a rinunciare alla propria poltrona sbattendo la porta qualora la fronda contro Finkielkraut non fosse rientrata, il noto filosofo, allievo di Emmanuel Lévinas, non sarebbe stato ricevuto con tutti gli onori che merita.
Bernard-Henri Lévy ha, come tutti, un proprio percorso che è stato ed è tutt’ora da lui vissuto come un combattimento. Per lui la filosofia è “un art de guerre”. E in guerra ci vive, visto l’assalto appena subito in Libia. Ma soprattutto fa della guerra la chiave ermeneutica per capire il presente. Ci arriva? Oppure, per essere più chiari e usare quel tono cortese che a lui è mancato nell’agguato televisivo a Matteo Salvini lunedì sera a “Quarta repubblica”, è veramente la guerra la chiave per capire il presente? La questione è della massima importanza e la metto in termini consapevolmente provocatori: è veramente la geopolitica a dettare le regole? Sono le mire di Erdogan, la strategia di Xi Jinping e quella di Putin, il nodo trumpiano e la strategia dell’Europa a tessere la trama essenziale sulla quale si gioca il futuro del nostro mesto presente? Per Bernard-Henri Lévy, sì. Le cose per lui stanno proprio così e non certo da oggi, visto che la sua stessa nascita culturale, nel cuore dei primi anni settanta, si sviluppava ancora nello scontro tra il moloch sovietico e l’America reaganiana.
Non è il solo a pensarla così. C’è un’intera scuola di pensiero che vede lo scacchiere geopolitico come il luogo decisivo sul quale si gioca l’essenziale. Tutto il resto viene dopo. Molto dopo. Da quest’altura il problema degli emigrati e del business dell’emigrazione clandestina appare veramente poca cosa. Per non parlare dell’eterna lotta tra pescatori. Cosa volete che conti rispetto alla guerra in Libia, alle strategie di Erdogan ed ai silenzi di Putin la mesta protesta di quattro barche di pescatori a Lampedusa?
Pertanto, per Bernard-Henri Lévy non solo Salvini e la Lega parlano da un altro mondo, ma anche i sovranisti nazionali di ogni bandiera parlano su una lunghezza di onde radio che semplicemente non esiste. Ma soprattutto non fanno altro che occultare il problema, sollevando polveroni intorno a quisquilie di terz’ordine, che non contano nulla, ma veramente nulla, sul piano dello scacchiere dei grandi riassetti globali in corso.
Ripetiamo allora la domanda, ma, come suggerirebbe Edgar Morin, riformuliamola. Il problema non è quindi di sapere se le cose stanno o meno veramente così, quanto piuttosto di interrogarci se questo problema sia l’unico ad essere essenziale o non si stiano addensando nuvole ben più consistenti dentro gli Stati stessi.
Non è un caso che Bernard Henri Lévy non abbia degnato della minima considerazione i “gilet gialli” in Francia, cioè la più grande ed estesa rivolta popolare degli ultimi duecento anni, rispetto alla quale, forse, solo le barricate della Comune del 1871 possono reggere il confronto. Dal suo punto di vista, era ovvio (oserei dire terribilmente ovvio) che costoro non potevano essere che un ciarpame neofascista (per essere più precisi ha evocato le camicie brune di hitleriana memoria). Il popolo, non lo ha visto. Il dolore per una vasta area della popolazione francese che si è immiserita ed alla quale qualche babbeo propone l’auto elettrica e la bottiglia di vetro quando queste persone non arrivano più a fine mese, è per lui sinceramente secondario. L’intero establishment macroniano, come Bernard Henri Lévy, si è fatto cogliere di sorpresa e l’ha risolta alla Giuseppe Conte: con un gran dibattito.
Solo il Covid ha fermato la rabbia dei poveri ai rond points ed ai caselli dell’autostrada. E Bernard-Henri Lévy non è riuscito a decifrarla se non denunciandone l’irrazionalità, quando non addirittura la reazione folle, quella della rabbia contro gli immigrati, nonostante i respingimenti alla frontiera di Ventimiglia. Bernard Henri Lévy ha ridotto pertanto i gilets jaunes a un movimento xenofobo e non ha visto l’intimo dramma di questa popolazione che, messa sempre più ai margini, non può che imbestialirsi verso una leadership radical chic che gioca ad andare in bicicletta dentro Parigi – chi è bien assis (ben seduto) non ha mai fretta – ed è pronta a partire immediatamente per New York, Dubai, o Berlino, tanto si sente oramai cittadina del mondo, a pieno agio in un’economia globale che domina dall’alto del suo inglese veicolare.
Sono le fratture francesi diagnosticate da sette anni da Christophe Guilly, che Bernard-Henri Lévy (come Macron del resto) non vede, né può vedere. Certo, la filosofia è una “art de guerre”, ma di guerra se ne sta giocando un’altra, più sommersa e certamente su di un fronte che non è quello istituzionale. L’elezione di Donald Trump – da tutti derisa e ritenuta impossibile alla vigilia – ha mostrato quanto sia potente la risposta anti-sistema dell’America profonda. Altri populismi, profondamente diversi tra loro, si stanno comunque affacciando alla porta: vale veramente la pena irriderli perché situati al di fuori dello scacchiere geopolitico? Non c’è forse il rischio, stimato collega, che il nostro amato Occidente imploda dall’interno, quando i gilets gialli ricominceranno ad occupare i rond-points ad epidemia finita?
Forse i dolori dei pescatori di Lampedusa, esattamente come quelli degli operai e dei pensionati della France pavillonaire (quella che è stata costretta ad abbandonare le periferie diventate invivibili), esattamente come quella delle borgate dell’Italia metropolitana, andrebbero ascoltati e raccolti. Per quanto lo scacchiere geopolitico sia fondamentale, il fronte interno sta portando con sé nuove emergenze e nuovi dolori, che non hanno nulla di banale. Guai a non rendersene conto ed in Francia stanno facendo di tutto per non riuscirci: che Dio li aiuti.