Matteo Berrettini ha conosciuto il tennis quando aveva tre anni. I genitori erano (e lo sono ancora) soci in un circolo, quindi gli hanno dato una racchetta e le palline di gomma. «Ma non mi piaceva, volevo fare judo, arti marziali. Poi fu mio fratello a convincermi che il tennis era più divertimento che pura fatica». Allora a 8 anni ha ripreso la racchetta, senza lasciarla più. «Mio nonno, a ottant’anni, gioca ancora, è proprio una malattia di famiglia», racconta il tennista a Walter Veltroni nell’intervista rilasciata al Corriere della Sera. Negli anni, comunque, Berrettini ha scoperto che in realtà il tennis è più faticoso di quanto si possa pensare. «Ma alla fine sono sempre riuscito a divertirmi, nella fatica. La fatica è sempre stata lo strumento per appagare questo desiderio di superare i confini, di andare oltre». Ma la svolta è arrivata tardi, a 20 anni, quando dopo un infortunio al ginocchio arrivò in finale ad un torneo Challenger ad Andria. «Ho pensato che forse, con la mia passione, avrei potuto anche mangiare, anche pagare le bollette».



Pur amando gli sport di squadra, alla fine Berrettini si è dedicato anima e corpo ad uno in cui il destino di una gara ricade interamente su se stessi. «Ogni gesto è pensato, vissuto e sofferto. Perché da ogni gesto dipende l’esito di ciò che fai. Il tennis è uno specchio impietoso, ti guarda dentro». Ma il tennis gli ha insegnato pure a perdere. Lo ha fatto anche con i migliori. «Io odio perdere, ma ho sempre usato la sconfitta per migliorarmi. Per me è un motore più grande della vittoria». Berrettini ricorda ad esempio la finale di Wimbledon: «Ho fatto un percorso incredibile e può starci, di perdere con Djokovic. Ma ero così vicino al titolo che ancora rivedo il film di quel match per capire dove potevo fare meglio. Ho perduto una partita, quella finale, ma sono stato fiero di aver condiviso con il mio Paese qualcosa di cui gli italiani sono stati orgogliosi».



BERRETTINI E IL TUNNEL PSICOLOGICO DA CUI È USCITO

Chi è sugli spalti o davanti alla tv si chiede spesso come si possa non mollare quando, ad esempio, si sta perdendo cinque a zero in un set. «È in primo luogo una forma di rispetto verso sé stessi», spiega Matteo Berrettini al Corriere della Sera. Nessun punto va regalato, soprattutto dopo aver faticato giornate intere per prepararsi. «La rinuncia a combattere, l’inerzia negativa è l’unica sconfitta che non sopporto, non riesco a perdonarmi. Io non voglio mollare mai», aggiunge il tennista. Nell’intervista non può mancare un riferimento ai suoi problemi fisici, che fatica ancora a comprendere. «Nell’ultimo anno ho vissuto troppi strappi mentali e fisici. Ci sono stati dei momenti in cui la mia testa e il mio corpo non erano allineati, chiedevo troppo all’uno o all’altro». Da un punto di vista clinico, ha riportato uno strappo dell’obliquo interno.



«Credo di aver chiesto troppo al mio corpo. La mia indole combattiva non mi fa accettare quei fisiologici momenti di down che esistono per tutti. Io se sono in difficoltà tendo ad accelerare e non sempre è giusto. Se le cose non vanno io metto giù la testa e spingo. Ma è un errore. Se la testa si illude di stare bene e il corpo sta male, si paga il prezzo che ho pagato». Berrettini è così caduto in un periodo di buio dal punto di vista psicologico. «Sì, molto legato al fatto di non poter competere. Perché in fondo, anche quando mi sento esausto, è questa una delle cose che mi rendono vivo. Non poterlo fare, in appuntamenti importanti, mi ha fatto conoscere il buio. E il buio sembra non avere fine, sembra ti inghiotta perché invece di stare fermo e rifiatare, ti scavi da solo un abisso». Berrettini parla di «momenti brutti, che non mi sono piaciuti», che però ritiene fondamentali per ritrovare i motivi di gioia nel giocare a tennis. «Ho ripensato alle origini per ritrovarmi. Il buio mi ha dato lo spazio per farlo».

BERRETTINI E LE CRITICHE SOCIAL

Matteo Berrettini è uscito dal tunnel ritrovando la bellezza del tennis. Ad un certo punto, la sua vita «era diventata una sequenza di “devo”. Dovevo giocare certi tornei, dovevo vincere, dovevo essere in un certo modo. So che il dovere esiste, ma si deve coniugare con il piacere, con la gioia di fare, con leggerezza, quello che hai scelto di fare». Ma il tennista non si è sentito mai solo, bensì spaesato e a disagio. «Mi sembrava ingiusto che, per qualcosa che atteneva al mio fisico, dovessi ingurgitare tanta cattiveria. Che tutti quelli che avevano tifato sparissero o si tramutassero improvvisamente in giudici o odiatori». Berrettini sente di aver pagato il prezzo più alto, di non aver ricevuto la solidarietà che meritava. «Mi ha ferito non trovare questa sensibilità».

Anche i social hanno pesato in tutto ciò. «Mi sono accorto che il mio stato d’animo cambiava in relazione al tono di cento persone che scrivevano i loro legittimi, ma spesso ingiusti, commenti che arrivavano direttamente nelle mie mani. Mi sono accorto che il mio umore aveva il dovere di dipendere da ben altro». Ora si sente bene, anche se l’equilibrio è dedicato: «La condizione la trovi solo giocando, ma se giochi troppo rischi». Tante volte, comunque, Berrettini ha avuto voglia di smettere. «Nel 2020 ho avuto un’annata complicata e ricordo di aver fatto il pensiero, che mi aiutava a dormire, di prendere il passaporto, non dire nulla ad anima viva e fuggire dove nessuno avrebbe potuto trovarmi. Mi è capitato di pensarci, nei giorni bui».

L’IDOLO FEDERER E L’AMICIZIA CON SONEGO

Il suo tennista preferito è Federer, con cui ha disputato la prima partita a Wimbledon: «Mi ha ammazzato, ma è stato meraviglioso. Lui non è solo un grande tennista, è una persona fantastica. Sa essere semplice, inclusivo, è naturalmente, non artificiosamente, aperto, cordiale. Quando passa senti un’energia speciale. Ha il carisma del talento e della gentilezza». Nel mondo del tennis Matteo Berrettini ha trovato un grande amico in Lorenzo Sonego: «L’unico con cui abbia un rapporto che supera il campo». Da lui è stato sconfitto seccamente a Stoccarda, proprio quando tornava a giocare. «Alla fine non ha esultato. Io ero completamente fuori di me e lui mi ha detto “Mi dispiace”. Significava “Mi dispiace vederti così”. Quando poi ho vinto io, a Wimbledon, lui a fine partita mi ha abbracciato, mi voleva dire che con me desiderava sempre giocare così, da pari a pari. Quel tipo di sensibilità non è diffusa. Nel tennis. Ma non solo». Infine, al Corriere della Sera parla anche dei suoi obiettivi: «Al livello sportivo nel mio cuore c’è Wimbledon. E anche gli internazionali di Roma. Ma oggi che, per la prima volta, ho conosciuto il malessere, l’obiettivo è quello di non frequentarlo più, di tenerlo lontano. E di vivere il tennis per quello che è: gioia e sfida per migliorare sé stessi».