È rapidamente rimbalzata in giro per il mondo la notizia dell’arresto – nell’Argentina governata Javier Milei – dell’ex esponente delle Brigate rosse Leonardo Bertulazzi: l’oggi 73enne operò tra le file della colonna brigatista genovese ed era latitante da ormai 44anni; mentre in Italia dovrebbe scontare una pena a 27 anni di reclusione (prima prescritta, poi riabilitata dal tribunale d’Appello del capoluogo ligure) per aver preso parte al tristemente famoso rapimento dell’ingegnere navale Pietro Costa nel 1977.



La presenza di Leonardo Bertulazzi in Argentina non era certo una novità perché gli inquirenti gli tenevano gli occhi puntati addosso almeno dal 2004 in attesa della revoca – infine arrivata pochissimi giorni fa – dello status di rifugiato politico che il governo argentino gli aveva concesso: centrale nell’operazione la rinnovata ‘amicizia’ tra il governo italiano e quello argentino; ma ora scatta la fase più dura e complessa della partita per assicurare l’ex BR alla giustizia italiana.



Stando alla legge argentina – infatti – dato che Bertulazzi arrivò nel 2002 passando dal Cile, se venisse espulso da Buenos Aires finirebbe a Santiago; mentre l’estradizione verso l’Italia è resa complicata da un’altra legge che non la concede nel caso in cui il condannato da estradare sia stato processato (come nel caso del brigatista) in contumacia, così come il già promesso ricorso alla revoca dello status di rifugiato da parte del suo legale potrebbe tardare ulteriormente le pratiche di un paio di mesi, oppure – nel peggiore dei casi – far decadere il decreto rendendolo nuovamente un uomo libero.



Il cugino di Pietro Costa: “Spero che Bertulazzi ora non torni in libertà e paghi per le sue responsabilità”

Nel frattempo che gli occhi sono puntati sulla giustizia argentina per l’esito dell’estradizione di Bertulazzi, la redazione della Stampa ha intercettato uno dei cugini dell’ingegner Pietro Costa – Giuseppe – che in una breve intervista ci ha tenuto a precisare che l’arresto “non mi ha provocato nessuna reazione”, seppur a suo avviso l’ex delle Brigate Rosse avrebbe dovuto – come molti altri ex ‘colleghi’ – “affrontare le conseguenze delle sue scelte e pagare il conto con la giustizia”; definendo una vera e propria “ingiustizia” che sia scappato nella speranza che “ora (..) non venga rimesso in libertà“.

Tornando indietro con la mente a quel 1977 in cui ancora non si sapeva neppure il nome o il volto di Bertulazzi, Giuseppe Costa ricorda che il terrore per la sua famiglia iniziò molto “prima del sequestro di Pietro” perché durante un processo per terrorismo di alcuni anni prima “la mia famiglia venne minacciata direttamente: ‘Prima o poi rapiamo un Costa’, hanno detto” e iniziarono anche una serie di pedinamenti fortunatamente sempre scongiurati dalle Forze dell’ordine.

Giorni, settimane, mesi certamente difficili perché subito dopo il rapimento di Costa da parte di Bertulazzi e ‘colleghicambiò completamente la sua vita: “Ero un ragazzo – ricorda – e alle feste di amici non potevo più andare, sotto casa dei miei c’era una guardia del corso [e] per uscire e tornare dovevi fare un giro sempre diverso”; mentre quando della liberazione del cugino ricorda di aver provato “un’emozione forte (..), c’era tutta la gioia che fosse vivo e che fosse finalmente tornato a casa”.