“Non è un disco country. È un disco di ‘Beyoncé’”. A dirlo è lei stessa, Bey, come la chiamano i fan, l’ex Destiny’s Child, nome completo Beyoncé Giselle Knowles, una delle cantanti di maggior successo al mondo da molti anni. Il disco in questione è uscito in questi giorni, si chiama Cowboy Carter (più esattamente Act II: Cowboy Carter) ed è già in cima alle classifiche, facendo dell’artista la prima donna di colore ad arrivare al top delle classifiche country, generalmente considerata la musica per eccellenza dei bianchi, meglio se un po’ di destra, piuttosto razzisti e ultra religiosi. Non è così in realtà. La musica country (chiamata anche country e western) è un genere musicale originario degli Stati Uniti meridionali e sud occidentali. Prodotta per la prima volta negli anni 20, la musica country si concentra principalmente sulla vita della classe operaia americana e sulla vita dei colletti blu.
Non è neanche un a novità assoluta che Beyoncé sia una donna di colore ad avere successo in questa musica. L’ottantenne Linda Martell (che non a caso appare anche nel disco di Bey) negli anni 70 entrò nelle classifiche country e si esibì anche nel tempio di questo genere musicale, il Grande Ole Opry. Artisti di colore che fanno musica country o folk sono sempre esistiti, anche in tempi recenti, basti pensare ai Carolina Chocolate Drops, un trio formatosi nel 2005 che suona musica strettamente tradizionale nord americana (e anche qui una di loro, Rhiannon Giddens appare in Cowboy Carter). Se aggiungiamo che nel disco fa un cameo anche la leggenda del country fuorilegge e alternativo Willie Nelson così come la ripresa del classico di questa musica, il brano di Dolly Parton, Jolene, e ci sia anche lo straordinario suonatore di pedal steel Robert Randolph – della tradizione Sacred Steel, la Musica sacra pentecostale nera del sud risalente agli anni ’30 – avremo una serie di indizi che ci diranno come Bey abbia formalmente approntato un lavoro molto serio e pieno di citazioni per avvalorare la sua proposta di “country di colore” che fosse fedele al genere stesso.
Beyoncé dice di aver lavorato a questo disco per quasi cinque anni, di essersi immersa nella cultura country e di aver studiato moltissimo. Bey poi è texana purosangue, è di Houston, e da ragazzina la famiglia la portava a vedere i rodeo, i classici spettacoli dei cowboy americani. È, o sarebbe, quindi una riappropriazione delle proprie radici, perfettamente consentita.
Il problema è un altro. Il disco è riccamente prodotto, alla ragazza non mancano i mezzi finanziari, ci sono canzoni e intermezzi con voci recitate, immagini di quel mondo antico, tanti cliché (le bottiglie di whisky, e serate nei localini di periferia a ballare la musica country), e come ha detto lei non si può dire esattamente un disco country. Dentro infatti c’è di tutto: hip hop, psichedelia, urban pop, country, naturalmente R&B moderno e chi più ne ha più ne metta. Come in tutti i dischi di oggi, c’è una somma di generi e di commistioni musicali mischiati fra loro, che creano quell’effetto si potrebbe dire multi culturale e multi musicale che alla fine dei giochi porta a far scomparire la natura stessa dei generi musicali, creando un ibrido patinato e piacevole per chi non si pone tante domande.
A un certo punto del disco si sente la già citata Linda Martell dire: “I generi sono un concetto buffo, vero? Sì, lo sono. In teoria hanno una definizione semplice e facile da capire. Ma in pratica, beh, alcuni potrebbero sentirsi confinati”. La già citata anche lei Rhiannon Giddens, in un articolo sull’inglese The Guardian, ha colto il punto: “La tradizione è modellata secondo la logica interna di comunità specifiche attraverso lunghi processi di impegno creativo… Il genere, d’altra parte, è un prodotto del capitalismo e delle persone con accesso al potere che lo creano, lo controllano e lo mantengono al fine di mercificare l’arte”. Nonostante l’uso di funk, psichedelia e perfino Jersey Club nel disco di Beyoncé il suo tentativo di avvicinarsi all’estetica country per rendere questo album marcatamente diverso dai suoi dischi precedenti suggerisce un’artista che si conforma agli standard di quest’ultima categoria per trarre profitto dalla crescente popolarità della musica country.
Secondo la rivista Billboard, il consumo della musica country in America è aumentato del 20,3% nella prima metà del 2023. Anche Lana Del Rey ha annunciato l’uscita di un disco country. Ci sono poi evidenti scivoloni in una banalità di genere, questo sì che è genere senza cuore e anima. Un brano si intitola 16 Carriages e fa venire in mente il titolo di un classico del cantante country Merle Haggard, 16 Tons. La canzone di Haggard, però, ritraeva la durissima vita dei minatori americani: “Ho caricato 16 tonnellate, cosa ho ottenuto? Un altro giorno più vecchio e ancora più debiti”. In 16 Carriages Bey racconta la sua vita adolescenziale in tournée con le Destiny’s Child, una vita di eccessi e di lussi che lei ritrae come sofferenza e fatica dormendo “nel retro del bus in una cuccetta”. Capite che c’è una differenza fondamentale, quasi ironica. Quella di Beyoncé è una versione hollywoodiana della realtà del mondo del lavoro.
Quando Johnny Cash, il più grande cantante country americano, in Folsom Prison Blues cantava: “Non vedo la luce del sole da non so quando sono bloccato nella prigione di Folsom e il tempo continua a trascinarsi”. la differenza con i dolori di Bey fa quasi ridere, quando in Money Buckin’ piagnucola per non aver ancora vinto un premio Grammy come album dell’anno nonostante sia la musicista che ne ha vinti di più.
Insomma, c’è una discrepanza evidente: quella che era musica della classe lavoratrice sotto proletaria diventa musica per influencer, star di Hollywood e di Mtv.
Il colpo finale è la sua versione del super classico della musica country Jolene di Dolly Parton. Nell’originale la protagonista è profondamente ferita e impotente di fronte a una bella ragazza che sta provando a portarle via il marito solo per divertirsi, il dramma di una donna che ha messo da parte se stessa per sostenere la sua famiglia. Nella versione di Beyoncé c’è un impetuoso avvertimento di dominio tipico di una pop star.
In sostanza, come dicevamo, Beyoncé non ha fatto nulla di nuovo. Decenni fa un altro musicista di colore, Ray Charles, aveva anche lui fatto un disco di musica country, ma lo aveva fatto rielaborando standard di musica country in chiave pop, jazz e R&B. Nel disco di Beyoncé tutto questo scompare.
Che poi il disco nasca, come dice Beyoncé, da un atteggiamento razzista nei suoi confronti, quando nel 2016 si esibì insieme al gruppo country Dixie Chicks ai Country Music Awards, be’ anche qui Beyoncé arriva ben ultima nella lista di coloro che sono stati vittime di un certo razzismo dei puristi della musica country. Ne sanno qualcosa i Byrds, il gruppo rock che unì folk a rock e psichedelia, quando nel 1968 si recarono a Nashville a registrare un disco country e furono duramente boicottati dall’establishment perché avevano i capelli lunghi e fumavano cannabis. Scrissero una canzone dedicata a un dj realmente esistente che non perdeva occasione di insultarli nei suoi programmi radio: “he’s an all night DJ But he sure does think different from the records he plays (…) He’s a drug store truck drivin’ man He’s the head of the Ku Klux Klan (…) I’m an all night musician in a rock and roll band And why he don’t like me I can’t understand”. E i Byrds non erano neanche di colore, anzi.
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