È iniziato l’anno nuovo e, riflettendo sul 2019, una delle esperienze più forti che ho vissuto è stata un viaggio in Bhutan, in occasione del Jambay Lhakhang Drubb Festival che si svolge nella remota località di Gangtey. Ormai il Bhutan non è più inaccessibile ai visitatori stranieri, e anzi Lonely Planet lo ha messo al primo posto fra le mete che consiglia di visitare nel 2020. Rimane una destinazione impegnativa, perché alcune delle mete più pittoresche – come la famosa Tana della Tigre, con il suo spettacolare tempio buddhista appollaiato su un picco – si raggiungono solo a piedi, per di più a livelli di altitudine non consueti per chi non vive nella regione himalayana, e perché il cibo locale qualche problema lo dà a quasi tutti gli stranieri, nonostante le precauzioni. Ma ormai le infrastrutture sono di livello accettabile, e Internet per esempio è disponibile quasi dovunque.
È anche una destinazione costosa. La politica del Bhutan di un “turismo sostenibile” limita e seleziona il numero di visitatori tramite un visto che costa in alta stagione 250 dollari al giorno, anche se poi da questa somma si possono scalare le spese sostenute per gli alberghi (esclusi quelli di lusso, che esistono) e altre pagate tramite un’agenzia (girare il Bhutan da soli e senza guida è comunque vietato, se non ai “turisti regionali” indiani che sono anche esentati dal visto).
Le limitazioni al turismo fanno parte della politica che ha reso famoso il Bhutan nel mondo, quella di non calcolare il Prodotto interno lordo ma la “felicità interna lorda”, sulla base di una serie d’indicatori. Esistono oggi buoni studi accademici, come quello del professore canadese Kent Schroeder, sulla nozione di “felicità interna lorda”, che per i sostenitori è un modello esportabile in tutto il mondo e per i detrattori pura propaganda politica creata dalla monarchia bhutanese.
L’idea si deve al re precedente all’attuale, Jigme Singye Wangchuck, tuttora vivente insieme alle sue quattro mogli (sorelle tra loro), che decise – nonostante la maggioranza dei bhutanesi fosse contraria – di passare dalla monarchia assoluta a un regime parlamentare con elezioni e partiti, aprendo anche a Internet e alla televisione (prima vietati) e infine abdicando nel 2006 a favore del figlio Jigme Khesar Namgyel Wangchuck.
La modernizzazione è più o meno riuscita, ma come tutte le modernizzazioni ha portato anche problemi. Non solo nelle scuole, che ho potuto visitare, ma anche nelle valli più remote frotte di bambini sorridenti si rivolgono ai visitatori in un ottimo inglese – lingua franca tra le oltre venti lingue e dialetti del Bhutan, anche se una, il Dzongkha, è maggioritaria – ma c’è chi lamenta che conoscono meglio Sherlock Holmes o Spider Man (un vero mito fra i ragazzini locali) dell’epica tradizionale himalayana, creando un gap culturale con la generazione dei genitori.
E c’è un lato oscuro nell’opera, in genere benemerita, del re Jigme Singye Wangchuck. La ricerca della felicità per lui richiedeva una coesione nazionale intorno al buddhismo. Molti immigrati e discendenti di antichi immigrati di origine nepalese e di religione induista che vivevano nel Sud del Bhutan furono espulsi, creando uno dei maggiori problemi di rifugiati – secondo alcuni oltre centomila – nella regione. E in Bhutan non c’è libertà religiosa per i cristiani: ogni attività missionaria è vietata.
In effetti, è impossibile accostare il Bhutan e lo stesso concetto di “felicità interna lorda” senza considerare l’identità buddhista del Paese. La felicità è una felicità buddhista, non legata alle ricchezze materiali ma a una vita che ruota intorno alla religione e ai monasteri, alla pace interiore e all’armonia della natura (le leggi sull’ecologia in Bhutan sono fra le più severe del mondo). Ma quello del Bhutan è un buddhismo particolare, di scuola Drukpa Gagyu (una variante della scuola tibetana Karma Kagyu) con un’onnipresente impronta tantrica.
Benché riferire il tantrismo – un complesso sistema di credenze e pratiche che attraversa sia l’induismo sia il buddhismo – soltanto al sesso sia una visione caricaturale ed errata, non c’è dubbio che comprenda una concezione sacrale della sessualità come via all’illuminazione. Il visitatore in Bhutan incontra dovunque il simbolo del pene maschile, dalle facciate delle case ai reliquiari con cui i monaci benedicono i pellegrini. Non si tratta solo di un simbolo della fertilità, ma della vita stessa e della protezione contro le forze oscure che la minacciano.
Al Jambay Lhakhang Drubb Festival i monaci benedicono adulti e bambini con reliquiari di legno a forma di pene, ma a mezzanotte i figli delle più antiche famiglie della vallata – mascherati e protetti dalla polizia che vieta qualunque fotografia ai rari visitatori stranieri – al termine di una danza estatica usano per le benedizioni i loro organi maschili mostrati orgogliosamente alla folla. Le limitazioni al turismo tendono anche a evitare facili battute e ironie, che disturbano molto i bhutanesi, su una simbologia tantrica che fa parte del loro patrimonio culturale e della loro religione, e che ultimamente ha molto a che fare con il loro peculiare concetto di felicità.