A poche ore dall’insediamento di Joe Biden alla Casa Bianca, il presidente iraniano Hassan Rohani aveva lanciato immediatamente un appello nei suoi confronti: “Trump era un palazzinaro e non conosceva la politica, ma i nuovi leader Usa conoscono la politica. Ringraziamo Dio. Biden deve provare a mettere a posto il caos degli ultimi quattro anni. La palla è nel suo campo”. E la palla, ma già si sapeva, Biden l’ha presa subito affidando a Robert Malley, l’architetto degli accordi sul nucleare del 2015, il compito di riaprire il dialogo con Teheran, ma soprattutto di riportare l’America nell’accordo da cui si era tolto Trump. Secondo Filippo Landi, già corrispondente della Rai a Gerusalemme, attualmente inviato di Tg1 Esteri, “il passo che sta per compiersi è molto significativo, perché riporterà al piano originale di Obama, di cui Biden era vice presidente, cioè di riconoscere l’Iran come potenza facente parte del Medio oriente, contrariamente a quanto Israele soprattutto ma anche l’Arabia Saudita vogliono e che Trump aveva loro concesso, con il rischio di aprire un conflitto militare”.



Un passo indietro dal punto di vista storico: che reale importanza avevano gli accordi sul nucleare del 2015?

Ricordiamo innanzitutto che l’attuale inviato per l’Iran nominato da Biden è stato il principale negoziatore degli accordi tra Stati Uniti, Iran ma anche altri paesi, come Francia e  Regno Unito, coinvolti nel 2015. Un accordo che è andato oltre il rapporto diretto fra Iran e Usa. Quegli accordi sancirono tre cose. Dal punto di vista tecnico l’Iran si impegnava a non arricchire l’uranio in una misura che poteva essere utilizzata per gli armamenti. Così è stato fino all’omicidio del generale Qasem Soleimani esattamente un anno fa che ha indotto il parlamento iraniano a dare il via libero all’arricchimento dell’uranio al 20%.



Quindi l’Iran nonostante l’uscita degli Stati Uniti dall’accordo ha sempre osservato le condizioni?

Sì. Il secondo punto sanciva la possibilità per l’Iran di usare energia nucleare a fini energetici. Terzo elemento, l’accordo rappresentava da parte del team Obama-Biden il più netto rifiuto nei confronti di Israele che chiedeva il bombardamento dei siti nucleari iraniani.

Cosa sarebbe successo se gli Usa non fossero usciti dall’accordo?

Dal punto di vista tecnico non è successo nulla, l’Iran e gli altri paesi europei hanno continuato a considerare valido l’accordo. Dal punto di vista economico è successo molto.



Infatti l’Iran è sprofondato nella crisi economica.

Sono state riprese le sanzioni e dal punto di vista politico la decisione americana è stata nel senso di impedire che l’Iran potesse avere una disponibilità di energia nucleare in ogni caso. Quindi è stata una scelta politica favorevole a Israele.

Per l’Iran, ci corregga se è errato, in questo momento la cosa che conta di più è togliere le sanzioni, ma Biden ha detto che alcune rimarranno. Perché?

Quanto detto dal segretario di stato americano va nel senso di un reciproco impegno dei due paesi a rimettere in piedi l’accordo del 2015, questa è la condizione in forza della quale gli Usa sono pronti a ridurre gran parte delle sanzioni economiche. Il nodo centrale che potrà decidere l’abolizione totale sta nella concreta verifica che l’Iran non proceda all’arricchimento dell’uranio in termini militari. Per il momento siamo fermi a una dichiarazione del parlamento iraniano che dava il via libero all’arricchimento, c’è da verificare se questo è accaduto e se l’Iran è disposto a rimanere negli accordi del 2015, cosa che ha fatto fino a un anno fa.

L’Arabia Saudita, nemica giurata di Teheran, ovviamente non sarà contenta. Come potrebbe reagire?

Non sarà contenta ma la strategia di Biden è nel senso di quello che Obama aveva avviato.

Cioè?

Riconoscere che l’Iran è una potenza regionale mediorientale e che quindi non si può ignorare questa questione. Negarlo come fanno Israele e Arabia crea le premesse di un nuovo conflitto che gli Usa a 30 anni dalla prima guerra del Golfo non intendono accettare. Un nuovo conflitto non è solo evitabile ma è auspicabile per la futura stabilità del Medio oriente, si chiede quindi indirettamente a Israele e Arabia di cambiare le politiche fino a oggi perseguite.

(Paolo Vites)