Dieci anni fa un quintetto inglese si sorprendeva a reintegrare come d’incanto l’ideale di una comunione musicale di intenti, vita e aspirazioni, adottando un approccio e una modalità che riportavano il cursore storico alla casella del “senza tempo”. I Big Big Train si sono ritrovati di schianto in quel 2009 a scrivere, condividere e interagire come una band a trecentosessanta gradi, come quelle realtà che dal primo lustro dei 70 per una buona decade si sono viste catapultate in un frangente storico, dove una certa musica fluiva come per prodigio da un tempo immemorabile e affrancata dalla gabbia delle categorie.
Passati dallo status di gruppo progressive rock di impostazione basica, per i primi due soli dischi, a pura recording band aperta ad ogni sorta di collaborazione sotto l’egida dei suoi membri storici – il bassista Greg Spawton e il tastierista Andy Poole – in quel citato 2009 registrano una svolta. La band incrocia le strade con musicisti di rango e di tutte le età, dall’ex storico chitarrista solista degli XTC, Dave Gregory, al talentuoso cantante David Longdon. “The Underfall Yard”, uscito in quell’anno, alterna intuizioni inedite a certe leziosità di genere, ma la rivelazione definitiva è dietro l’angolo con la splendida accoppiata nel giro di pochi mesi di “English Electric Part One” e “English Electric Part Two” (2012 e 2013). In quello straordinario sussulto riemerge la meraviglia di quel tempo senza tempo che non sapeva ancora di essere recintato nel prog o in altra definizione, ma che più sommessamente abbracciava la meraviglia della bellezza combinata di un approccio artistico tra rock e patrimonio colto. Il gruppo prende confidenza imbarcando altri eccellenti elementi come il tastierista Danny Manners e la violinista Rachel Hall, entra quindi in studio a provare performance in presa diretta (immortalate nel DVD “Stone and Steel”) uscendo quindi dal guscio protettivo della recording band. L’impostazione art rock dai richiami vittoriani associati ai ricorrenti richiami folk da parata per le strade dell’Old England, richiedono l’ausilio di un mini-ensemble di ottoni che agisce per interventi mirati.
L’identificazione di una terza grande generazione di un modo di concepire la musica dopo Genesis e Marillion diventa dunque storia e la band è pronta a calcare di nuovo i palchi con assiduità. Il 2016 di “Folklore” vede un gruppo incontenibile che pullula di slanci creativi che culminano nel primo album live a tutti gli effetti “A Stone’s Throw From The Line”. L’apparente marcia trionfale si arresta nella malcelata superbia di voler pubblicare altri due dischi in un solo anno, il 2017. Esperienza insegna che non sempre si può senza subirne le conseguenze. E’ così ad un “Grimspound” che alterna fasi ispirate a una parte finale stanca e ripetitiva, succede un “The Second Brightest Star” che fa annaspare i nostri in una serie di lunghe arie o reinterpretazioni involute e senza direzione. L’ottimo live “Merchants of Light” registrato alla Cadogan Hall interviene a riportare l’itinerario in una direzione consona alle ambizioni, c’è l’ideale passaggio di testimone di un Tony Banks presente tra il pubblico ad una delle serate, e la passata di spugna sul meglio della produzione degli ultimi anni è encomiabile. Ma occorre fare un passo indietro e tornare a riappropriarsi di quella memoria antica e sempre presente che ha suscitato quel nuovo fascino.
Cosa ci può essere di meglio allora che intraprendere un lungo viaggio (“Grand Tour” come recita il titolo del nuovo album), fisico e spirituale, in mondi ed esistenze dove tutto ha avuto inizio? La band lo fa esplorando diversi lasciti dell’antichità e della storia che ancora oggi incidono sulla ricchezza scientifica e spirituale del presente, dal Novum Organum di Francis Bacon, addentrandosi nell’Italia delle scoperte e delle opere di Leonardo, nell’ambivalenza straordinaria e brutale dell’Impero Romano, incontrando l’imponenza monumentale del Pantheon e la bellezza immortale delle opere della prima cristianità patrocinate dall’imperatrice Teodora a Ravenna. C’è spazio anche per l’anelito di libertà dell’Ariel della Tempesta shakespeariana, per tornare nella contemporaneità dell’esplorazione del sistema solare del Voyager. Ma ogni viaggio ha una sua fine. Quale? Nello specifico il ritorno a casa nella campagna e tra i corsi d’acqua del Dorset.
In questo “Grand Tour” viaggio, esplorazione e ritorno sono accompagnati da musiche che scandiscono questo percorso di liberazione e di riconquista dell’agognata memoria pura e priva di malizie. Dopo l’introduzione di Novum Organum, si alternano brani dove la scrittura ora di Greg Spawton ora di David Longdon, riparte dal finale di “Grimspound” cercando una lenta e paziente liberazione dalle gabbie stilistiche di quest’ultimo. Alive, The Florentine e Roman Stone sono questa tenace storia di recupero della scintilla, dove non tutto funziona a dovere e l’ispirazione va a corrente alternata. Il giro di vite dato dal batterista Nick D’Virgilio autore del vigoroso e squadrato strumentale Pantheon, segna la demarcazione oltre la quale la creatività di Longdon e Spawton riprende magicamente quota, come un sano e rigenerativo intervallo tra primo e secondo tempo. Longdon firma l’avvincente cantabilità progressive pop di Theodora In Green and Gold e l’epica anglo-celtica di Ariel. Spawton rilascia la fragranza domestica della conclusiva Homesong e soprattutto la strabiliante epopea cosmica di Voyager dove la band, dal violino sensuale e delicato di Rachel Hall, al piano liquido e alle audaci stratificazioni del synth di Danny Manners, vola nuovamente alto nelle aree misteriose di stanze segrete che custodiscono scintille atemporali di arte e di senso.