Era il 7 giugno quando una bimba di un anno a Roma è morta per un colpo di calore dopo essere stata dimenticata sul sedile dell’auto dal padre che la stava portando all’asilo nido. L’uomo, un carabiniere di 45 anni, attraverso il suo avvocato Giovanna Mazza, come riportato dal Corriere della Sera, ha chiesto di potere accedere al procedimento di “giustizia riparativa” entrato in vigore nel 2022 con la legge Cartabia.
La misura in questione avrebbe permesso all’imputato – che secondo quanto ricostruito dalla Procura è stato colpito da un automatismo mentale – di evitare il processo penale per omicidio colposo, che avrebbe rappresentato un ulteriore dolore per la famiglia della vittima. È in virtù di questi motivi che il procuratore aggiunto Paolo Ielo aveva dato parere positivo, anche in considerazione della disponibilità percepibile nell’“atteggiamento maturato dalla moglie in sede di indagini”. Il provvedimento, tuttavia, non potrà essere attuato perché non esiste alcun centro di riferimento che se ne occupi.
Bimba morta dopo essere stata dimenticata in auto: niente giustizia riparativa per il papà
La gip di Roma Daniela Caramico D’Auria ha dovuto rassegnarsi a dichiarare il “non luogo a provvedere” all’attuazione della “giustizia riparativa” nei confronti del papà della bimba morta dopo essere stata dimenticata in auto per colpa della inadempienza dello Stato. La misura infatti è entrata in vigore oltre un anno fa e l’autorità giudiziaria può autorizzarla su richiesta dell’imputato, della vittima o d’ufficio, ma non esiste alcun centro a cui è possibile affidare gli imputati.
Solo il 27 luglio scorso è stata nominata una Commissione nazionale e solo il 25 ottobre quest’ultima si è riunita per la prima volta per decidere i requisiti che i centri dovranno avere e formare i mediatori. Benché la legge sia in vigore, dunque, appare molto difficile l’attuazione in tempi brevi. Alcune regioni, in tal senso, si sono mosse autonomamente. In Emilia Romagna, Lombardia e Puglia, infatti, enti locali, magistrati e avvocati hanno sottoscritto protocolli per riconoscere come adeguate alcune strutture esistenti, che però sono ritenuti “non previsti da alcuna norma”. Il risultato è che ci sono tante discriminazioni e pochi risultati.