Noi non nasciamo per vivere, nasciamo per generare. L’individualismo cieco dal quale siamo circondati, e che riduce la felicità alla realizzazione di tutte le volontà umane, ruba all’umanità alcune delle verità più autentiche. Poi accadono dei fatti, a volte piccoli a volte enormi, per cui non si può più continuare a fare finta di niente. Gaza non è semplicemente il nome di un’area, bensì il simbolo – in questi ultimi mesi – di qualcosa di oscuro, di una terra in cui soffia ineluttabile il vento della morte. Sabato scorso una donna incinta è stata ferita gravemente durante un bombardamento: i medici sono riusciti a far nascere la bambina mentre la mamma moriva. L’esistenza di quella donna non si era giocata in tutti i desideri che aveva espresso, neppure nel semplice rimanere in vita.
Ella compiva il suo cammino terreno nel momento in cui generava, in cui portava alla luce un’umanità che nessuno aveva ancora visto. Generare è proprio questo: far venire alla luce tratti umani che il mondo non ha ancora visto. La pace è questo, è tutta qui: non è mettere a posto quello che c’era, ma tirare fuori quello che nessuno si sarebbe mai immaginato. La pace è un’opera creativa che avviene nel momento in cui l’uomo riconosce di non possedere tutta la ragione e tutta la verità: in quello spazio vuoto – in quello spazio nuovo – c’è la possibilità di divenire gestatori di pace, levatori di umanità.
Ma questo è reale nella misura in cui si realizzano tre condizioni tutt’altro che scontate: la prima condizione riguarda noi stessi. Noi siamo al mondo per nascere. E nascere significa portare alla luce tutto il nostro umano. Finché il nostro dolore o le nostre ferite restano insabbiati dai nostri pensieri o dalle nostre narrazioni, noi non nasceremo mai. Saremo sempre sul punto di iniziare a vivere. Nascere è accettare di essere venuti al mondo nel tempo in cui siamo, nel luogo in cui siamo, con la storia che abbiamo. Accettare e accogliere il nostro cammino e la nostra strada. Abbracciare e guardare senza vergogna le orme e le tracce che abbiamo lasciato nella lunga spiaggia che ha descritto l’itinerario del nostro passo all’interno dell’avventura della vita.
Questa nascita, questo venire alla luce, portando in luce tutto quello che siamo e amandolo, chiede un nuovo sguardo sugli altri, seconda condizione. Gli altri non sono quelli che devono farmi contento, gli altri non sono quelli che devono realizzare i miei desideri e i miei sogni. I corpi degli altri non sono lì perché io li utilizzi, la storia degli altri non è lì perché renda un buon servizio alla mia causa: gli altri non sono qualcosa di cui disporre, ma qualcuno per cui io sono fatto. La mia generazione non è completa, non è compiuta, finché non vede nell’altro il suo approdo: io non sono al mondo perché gli altri diventino più miei amici, io sono al mondo perché, grazie al mio contributo, gli altri siano più amici. L’essere che ci è dato, e che ciascuno di noi è, è un essere per la vita, è un essere per la pace. Perché possa accadere il bene in un luogo e in relazioni che stanno oltre me, al di là di me. Una persona con questa coscienza smette di possedersi e inizia a donarsi. Se dunque siamo al mondo per portare alla luce noi stessi e servire l’umano, allora occorrerà arrendersi al fatto – terza e ultima condizione – che nessuno sa come questo servizio avverrà. E non importa l’età anagrafica: finché c’è futuro, c’è spazio per il Mistero.
E in quello spazio, se ho portato alla luce me stesso e vissuto questa disponibilità alla pace, si realizzerà lo scopo – il termine ultimo – della mia vita. Come ciò avverrà, io non lo so. Potrebbe accadere sotto le bombe, potrebbe succedere in un punto sperduto del mondo, potrebbe avvenire nel momento in cui avverto su di me la più grande delle infelicità: lì potrei dare al mondo un tratto di umanità nuova, una bambina, che è una promessa, un inizio e una speranza. Potrebbe essere giudicata come follia riconoscere in quella bambina tutto quanto detto fino ad ora, eppure se uno conoscesse Cristo – ma non il Cristo reclamizzato al mondo dalle guerre intestine dei Suoi discepoli – bensì il Cristo della fede, il Cristo dei primi concili ecumenici, il Cristo raccontato dai Padri e dai Santi di ogni tempo.
Se uno conoscesse Lui, che si è spogliato della Sua condizione divina per assumere la nostra condizione umana e farsi servo dell’umanità, allora potrebbe entrare in un amore e in una consapevolezza, in una strada e in uno sguardo, dove vivere è respirare come ha respirato Lui, è donarsi come si è donato Lui. Non per altruismo, non per bontà, ma perché il compimento della vita non è in noi, ma in quello che lasciamo, in quello che doniamo, in quello che generiamo. Le macerie di Gaza portano alla luce una bambina in giorno di sabato. È il giorno che il Cristianesimo dedica al grande silenzio di Dio dopo la crocifissione. In entrambi i casi si tratta di una gestazione che è più che una speranza: è la vigilia – anche a Gaza – di un’inaudita resurrezione.