Scandiscono i notiziari tivù, e li abbiamo sentiti tutti: “Sta rientrando in Italia, dopo ricerche da parte dello Scip della Polizia e dei Ros dei Carabinieri, Alvin, il bimbo di 11 anni portato da Barzago, nel Lecchese, in Siria dalla madre Valbona Berisha, che lasciò il marito e padre del bimbo per arruolarsi nell’Isis, il 17 dicembre 2014. Il piccolo si trova all’ambasciata italiana a Beirut, in Libano, e dovrebbe arrivare domani (oggi per chi legge, ndr) a Roma”.
Che cosa si deve dire ad Alvin, il bambino che torna dalla guerra, vissuta nel seno della comunità dei terroristi di Al-Baghdadi? Una guerra che non era la sua, ma quella di sua madre?
Non so bene quali parole, quale sguardo gli dedicherà il padre. In lui agirà l’amore, che ha dimostrato andandolo a cercare a rischio della vita, molto prima che l’Isis fosse decimato.
Una cosa la so bene. Guai a chi gli chiederà di rinnegare sua madre! Ci sarà certo l’appello, che presto o tardi si farà sentire, ai suoi doveri di candidato martire, da parte di chi ha tagliato gole al fianco di Valbona Berisha, la mamma che se l’è portato dietro in battaglia, strappandolo alla famiglia e alla sua Brianza. Ma su quella gente non abbiamo potere di consiglio. Nella sua famiglia, e con gli amici del paese, imparerà con il tempo a distinguere l’orrore in cui la mamma lo ha condotto, e quel suo sguardo amorevole: anche mentre sbagliava ella lo amava.
La storia di Alvin è quella di un “senza patria”, come Gesù. Non esito a scriverlo, ben sapendo che le scelte che lo hanno reso un simbolo di contraddizione, come il Nazareno, sono esecrabili. Non le ha fatte lui però, le ha subite: un calvario di fiele e sangue, e insieme bagnato di gocce di amore confuso, reso acido da quel principe delle tenebre che trascina le persone più fragili, come Valbona: ma per fortuna satana non è onnipotente, non riesce a chiudere i coperchi del male. Non è stato lui, Alvin, a essere stato trascinato dal diavolo, che invece ha ghermito sua madre, la sua carissima madre Valbona.
E lei, forse per salvare in sé qualcosa di umano dall’abominio verso cui si dirigeva come una cieca, se l’è tenuto al fianco in quell’altra vita sciagurata: magari per trovare un appiglio di realtà e di tenerezza, non un libro o un’ideologia da adorare, ma una personcina da tenere stretta a sé. L’ha portato in aereo con sé, a Istanbul, per poi traslocare in Siria negli acquartieramenti dell’Isis. Valbona aveva 35 anni, Alvin 6. Era il suo bambino, il suo angelo combattente al proprio fianco.
Cosa è successo da quel momento? Che cosa ha vissuto questa coppia di madre e piccino? È successa la guerra, non una guerra qualsiasi, ma la guerra “moderna”, dove la crudeltà è allo spasimo. Quella dove non si fanno prigionieri, si decapitano innocenti, i cristiani vengono posti davanti all’alternativa o-ti-converti-o-perdi-tutto (non si conosce un solo caso di rinnegamento di Cristo, hanno tutti preferito morte o esilio). Un conflitto in cui si gettano bombe a caso, si buttano dalle finestre gli omosessuali, e i bambini…
Ai bambini che cosa accade? Ad Alvin è capitato di essere sopravvissuto, a differenza di molti altri, ed è già molto, per essere consegnato all’educazione del sangue altrui da versare. Nelle file delle varie formazioni jihadiste funzionava e purtroppo funziona ancora in questo modo atroce. Alvin, con i suoi occhietti colorati ancora di cartoni animati, aveva visto la mamma Valbona combattere “vestita come un ninja” (ha detto proprio così, a chi è andato a cercarlo dopo la disfatta del califfo), finché non è morta in un’esplosione vicino ad Aleppo. Non prima però di aver condotto il figlioletto all’addestramento jihadista: Alvin, ormai rinominato Yusuf, è stato istruito per essere un bambino soldato, capace di uccidere nel corpo a corpo e con le armi da fuoco.
È stato ritrovato dai Carabinieri in un campo di reduci, accudito dalla Mezzaluna rossa, condotto nell’ambasciata italiana di Beirut e finalmente lo si vede sorridente nelle fotografie. Oggi dovrebbe giungere nel suo luogo natale, in Italia.
Eppure, non è stato solo orrore. Sono nate delle rose. Abbiamo visto in tanti sul web l’intervista a Myriam, una fanciulla irachena cristiana di dieci anni, in fuga dall’Isis. Ella perdonava con semplicità i suoi persecutori, con una voce che a riudirla fa venire la pelle d’oca, annichilisce qualunque indifferenza, diffonde la grazia di una vita buona, della pace vivente.
Io dico: guardiamola noi adesso, e gli insegnanti e compagni di Alvin la guardino con lui. Gli facciano incontrare Myriam, che sta a Erbil. Solo tra chi ha vissuto, pur da parti opposte, la stessa violenza può nascere una fraternità, la possibilità di perdonare e amare la propria mamma che ha scelto la parte della morte. Ma forse non ha vinto la morte.