Bambini maltrattati, violentati, seviziati. Le loro storie non appartengono a un tempo arcaico, a epoche ancora distanti da una serie di convenzioni e dettami legislativi a salvaguardia dei diritti dell’infanzia. Sono le storie di oggi quelle dell’orrore, che di tanto in tanto affiora quasi per caso, quando i lividi sul corpo o quelli non meno dolorosi che si leggono in uno sguardo spento o in comportamenti “strani” fanno scattare l’attenzione, accendono dubbi… e in qualche caso spingono a scoperchiare l’inferno.
È notizia di ieri la vicenda accaduta in un villaggio dell’Ucraina, dove un bambino di sei anni si era lasciato sfuggire uno sfogo parlando con i compagni e aveva dato voce all’ incubo quotidiano vissuto fra le pareti di casa: suo padre, con la complicità della matrigna, sottoponeva il piccolo a una sorta di tortura, tenendolo legato a una catena di ferro, “come un cane”, e picchiandolo senza pietà.
Viene spontaneo un sospiro di sollievo nel leggere la notizia della liberazione del piccolo dalle grinfie di un padre ostinatamente violento, che già in passato era stato privato della “potestà genitoriale”, poi di fatto recuperata tornando ad occuparsi del figlio, riprendendolo con sé.
Resta tuttavia la percezione di una ferita profonda, difficile da rimarginare in un bambino di sei anni cresciuto nella desolazione di un deserto affettivo. Una vicenda come questa non troverà un reale “lieto fine” unicamente nella liberazione del piccolo, che verrà finalmente allontanato da un contesto di grave depravazione e affidato alle cure di chi – si spera – potrà aiutarlo a rimarginare le ferite dell’anima oltre che del corpo.
È risaputo infatti che tanti bambini resistono in condizioni di grave disagio, senza mai esternare il loro dramma, nel timore di spezzare un legame che sentono unico e comunque significativo, nonostante le umiliazioni e le angherie da sopportare.
Non c’è misura all’insensatezza di certe vicende, ogni riflessione sembra solo lambire di striscio un orrore dalle profondità abissali. Lascia non poco esterrefatti in questo senso anche la dichiarazione del genitore di fronte ai poliziotti: “Lo legavo come un cane e lo picchiavo perché volevo educarlo”. Forse annaspando alla ricerca di una giustificazione o forse avendo da sempre covato nelle pieghe della sua macabra follia una parvenza di intento plausibile, questo padre ha fatto venire a galla qualcosa di sconcertante e paradossale, l’idea che si possa educare un bambino forgiandolo come un ferro da arroventare, da piegare a piacimento secondo schemi e capricci, visioni più o meno ottuse e malate, attinenti o meno alle attese e alle domande dell’altro, insensibili a qualsiasi suo grido.
Forse l’unica riflessione di fronte a una paternità così mostruosamente tradita è quella che ci porta alla radice di un comportamento che può essere malvagio e crudele fino all’aberrazione, è quella cioè che apre la domanda sul dramma di un proposito educativo che nega totalmente l’alterità dell’altro, del figlio, che trascura del tutto la libertà, non la prevede, non la considera. In certi casi, di estremo degrado e di lontananza da sé stessi, diventa improbabile offrire a un altro una libertà che sembra preclusa anche alla propria esistenza.