Un raptus. “Cinque secondi in cui il cervello mi si è spento”, confessa davanti al pm Sozio il venticinquenne Tony Essobdy Badre, che il 27 gennaio 2019 uccise il piccolo Giuseppe – figlio della compagna – per averlo disturbato in un momento di riposo. Una storia impressionante che già allora spinse a porsi domande e a fare riflessioni, una vicenda che adesso chiede ai giudici – e di riflesso a tutto il popolo che essi rappresentano – di spostare l’attenzione dalla tragedia alla giustizia.
Sì, perché il punto ora è stabilire che cosa significhi fare giustizia in un contesto come questo. La realtà e l’ordinamento giudiziario italiano offrono un sincero aiuto: la prima ricordandoci che il piccolo Giuseppe non sarà più restituito a questo mondo, il secondo evidenziando come non si possa rispondere con la morte a chi dà morte e che lo stesso regime penitenziario è da intendersi non come punitivo.
E già su questo si potrebbe soffermarsi non poco: a tutti viene voglia di punire un uomo così, di etichettare la sua “versione dei fatti” come una scusa a posteriori e di evitare qualunque forma di clemenza. Ma a che cosa può ambire una comunità nei confronti del signor Essobdy Badre? Chi siamo noi per detenere un atteggiamento così netto?
Molte potrebbero essere le risposte, ma forse una sola è quella che umanamente apre più prospettive per tutti: l’obiettivo di qualunque azione nei confronti di un assassino che ha confessato è che il reo possa sentire dentro di sé tutto il male e il dolore che ha arrecato, che possa insorgere in lui l’esigenza di essere perdonato. E come è possibile verificare che una cosa del genere accada? Come si può produrre in una persona un effetto del genere?
È disarmante ammettere che niente possa garantirlo e che, quindi, ultimamente noi non possediamo alcuno strumento capace di generare giustizia: gli uomini non controllano le coscienze dei propri simili e i loro sistemi possono soltanto aspirare a collocare chi sbaglia nel contesto migliore per aiutarlo nel lungo lavoro su di sé che lo attende. Il paradosso è dunque questo: che se si vuole fare davvero giustizia il colpevole non va punito, ma va aiutato.
Come cambia, dopo una frase del genere, la stessa concezione del carcere: o le case circondariali e di detenzione sono luoghi di aiuto alla persona, di supporto al lavoro di un Io davanti al proprio male, o sono solo luoghi di ammasso, sostitutivi di una violenza collettiva trattenuta solo dalla sottile pellicola del perbenismo.
Raptus o non raptus, il carcere dovrebbe diventare uno strumento necessario, e al contempo flessibile, di cura, di riparazione, di sosta. Non è un caso che in molte stagioni del medioevo i criminali venissero inviati nei monasteri o nei conventi: era chiaro che occorreva un luogo in cui si potessero creare le condizioni migliori che una comunità poteva offrire al germogliare di una consapevolezza, di una nuova dignità. In un tempo in cui si è talmente insicuri del paradiso che si bestemmia il Cielo per riportare sulla terra il piccolo Giuseppe, la terra ha bisogno di un luogo che custodisca l’umano a tal punto da fargli desiderare il Cielo. Che questo accada è una partita che ci riguarda fino a un certo punto: essa non può neppure cominciare se Tony Essobdy Badre non trova in sé l’umiltà di un gesto, il coraggio di un calcio di inizio.