“La nostra prosperità economica e il nostro benessere dipendono dal buono stato del capitale naturale, compresi gli ecosistemi che forniscono beni e servizi essenziali. La perdita di biodiversità può indebolire un ecosistema, compromettendo la fornitura di tali servizi ecosistemici”.
Nonostante la chiara presa di posizione del ministero della Transizione ecologica, le azioni per difendere la biodiversità continuano a non essere sufficienti, in Italia come ovunque nel mondo. È l’allarme lanciato a chiare lettere da Slow Food che, in occasione della Giornata mondiale della biodiversità, celebrata il 22 maggio, ha presentato il documento di posizione intitolato Se la biodiversità vive, vive il pianeta.
“Stiamo assistendo a un attacco continuo alla biodiversità – incalza Serena Milano, Segretaria generale della Fondazione Slow Food per la Biodiversità -, nella inutile rincorsa a produrre di più nell’immediato, senza tener conto dell’ambiente, della terra, della crisi climatica. Tante parole e nessun cambio di rotta”.
Ma senza biodiversità – è la tesi di Slow Food – non è possibile sfamare il pianeta: le monocolture sono molto fragili e non sono in grado di adattarsi agli imprevisti e ai cambiamenti climatici. Gli unici a guadagnarci – tuona ancora l’associazione – sono i detentori di brevetti e copyright che gestiscono l’agrobusiness dei nostri giorni.
E non solo. La biodiversità – aggiunge sempre Slow Food – è una condizione necessaria alla salute tanto dell’uomo, che ha bisogno di diete varie, quanto dell’ambiente, il cui fragile equilibrio è dato proprio dalla coesistenza di un’infinità di specie e varietà differenti. È poi un fattore indispensabile per mantenere vive le nostre radici: se vi rinunciassimo, perderemmo ogni legame tra alimentazione, luoghi di produzione, storia e cultura.
La conclusione di Slow Food è dunque senza appello: senza biodiversità non può esserci vita. Il declino della biodiversità viaggia in parallelo al declino delle possibilità per l’uomo di evitare la propria estinzione. Ogni specie vegetale, ogni razza animale, ogni ecosistema, ogni sapere che perdiamo – afferma l’associazione – è un’opportunità in meno di superare la grande sfida che abbiamo davanti: quella di garantire a tutti un cibo buono, pulito e giusto.
La biodiversità però – accusa Slow Food – è la grande assente nel Piano nazionale di ripresa e resilienza presentato alla fine di aprile dal Governo italiano: pur comprendendo tra le sue missioni anche quella della “rivoluzione verde e transizione ecologica” – osserva l’associazione -, il Pnrr non affronta alla radice le cause delle crisi che stiamo vivendo né promuove la transizione ecologica, ma si limita a essere un piano di ammodernamento del Paese, per lo più seguendo un modello di sviluppo la cui insostenibilità è ormai evidente. “Nel documento – si legge in una nota di Slow Food – il termine biodiversità ritorna 25 volte e a più riprese se ne evoca la tutela, eppure dal testo sembra trasparire la mancanza di una visione veramente ecologica”. E ancora, mancano richiami all’agroecologia, ovvero a quell’approccio che si oppone alle monocolture, riduce nettamente l’uso di prodotti chimici di sintesi, previene il compattamento dei suoli, puntando su tecniche e pratiche funzionali alla rigenerazione della loro fertilità, come la rotazione colturale e il sovescio, e alla conservazione delle risorse, a cominciare dall’acqua e dagli impollinatori. L’agroecologia si pone quindi come “l’unica pratica agricola che può rigenerare la terra e l’ambiente circostante”, afferma Francesco Sottile, membro del Comitato esecutivo di Slow Food Italia.
La biodiversità nel piatto
Difendere la biodiversità – è la conclusione di Slow Food – significa dunque occuparsi concretamente del cibo che consumiamo tutti i giorni. Ma la situazione attuale – accusa Slow Food – è distante da questa prospettiva: il 75% delle colture agrarie presenti a inizio ‘900 è ormai perso e tre specie – mais, riso, grano – oggi forniscono il 60% delle calorie necessarie alla popolazione del globo; il 63% del mercato dei semi è nelle mani di quattro multinazionali che ne possiedono anche i brevetti. Si tratta delle stesse società che detengono la proprietà degli Ogm e sono leader nella produzione di fertilizzanti, pesticidi e diserbanti.
Così accade – rileva l’associazione – che su 500 varietà di banane, sul mercato, ne troviamo soltanto una, la Cavendish. Che più di una razza animale su cinque (il 26% delle 8.803 razze registrate a livello globale) è a rischio di estinzione. E questo perché – continua Slow Food – l’agroindustria punta su poche razze commerciali selezionate per le altissime rese di latte o i tempi rapidi di crescita (e dunque di produzione di carne), allevate in modo intensivo senza accesso a spazi aperti, trattate con antibiotici (e fuori dall’Europa anche con ormoni), alimentate con mangimi ottenuti da coltivazioni geneticamente modificate e trasportate su lunghe distanze. Un modello insostenibile – giudica Slow Food – che, oltre a causare sofferenze agli animali, ha portato la zootecnia a produrre il 14,5% di emissioni di gas a effetto serra e a contribuire in maniera pesantissima alla deforestazione. Per fronteggiare la perdita di biodiversità animale – e con essa anche di ecosistemi e risorse naturali – occorre invece sostenere un modello di allevamento basato sulla diversità, la capacità di adattamento delle razze locali, il legame con il territorio e il pascolo.
“La biodiversità – conclude Serena Milano – è ovunque e proteggerla attraverso l’agroecologia è l’unica soluzione che abbiamo per preservare il pianeta. E proprio questo è il messaggio che Slow Food porterà alla quindicesima riunione della Conferenza delle Parti della Convenzione sulla Diversità Biologica (COP 15) a ottobre, dove verrà adottato un nuovo Quadro Globale per la biodiversità post-2020”.
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