Black Panther: Wakanda Forever è uno degli ultimi film del MCU (Marvel Cinematic Universe) e si basa, come tutti i prodotti della Casa delle idee, sugli eventi accaduti nei precedenti film del merchandising. Dopo Avengers – Endgame e la chiusura di una linea cinematografica decennale divisa in tre fasi, accompagnata dall’uscita di Spiderman – No Way Home, un bel film che fa da ponte con i nuovi contenuti Marvel, la Fase 4 dell’MCU è un lungo viaggio nelle emozioni e nei cuori dei protagonisti sopravvissuti a Endgame, con l’eccezione di Shang-Chi ed Eternals.



Wakanda Forever in particolare è il film che svetta su questa tematica, complice anche la morte dell’attore Chadwick Boseman, che impersonava re T’Challa, cioè Black Panther: questo ha aperto due vie per proseguire la sua storia, o cambiando l’attore o andando oltre il personaggio protagonista. Si è scelta la seconda via. Il film si apre infatti con la morte di re T’Challa, il grande assente-presente di tutto il film: Boseman non compare mai se non in alcune scene finali, prese dal film precedente. Il rischio era di fare qualcosa che fosse un omaggio al defunto attore, invece il risultato è stato tutt’altro e la storia si incentra sulla principessa Shuri, sua sorella, e su come vive il suo lutto. T’Challa è assente, eppure presente in tutte le sequenze: è un ricordo vivo che compare accanto a sua sorella in ogni scena.



Shuri è una grande scienziata e si rifugia proprio nella scienza per non affrontare fino in fondo il dramma della perdita: non ha ancora iniziato a guardare in faccia la realtà, rifugiandosi nella costruzione di tecnologie di difesa ora che «non c’è più Black Panther a proteggere il Wakanda». Ma il guerriero stesso, impersonificato da tutti i re del Wakanda fino a T’Challa, non ha più posto nella sua terra, perché è stata bruciata l’erba che conferiva i poteri della pantera a chi si sottoponeva al rituale.

Si potrebbe, proprio tramite la scienza di Shuri, provare a generarla nuovamente in laboratorio, ma per farlo servirebbe convincere Shuri, dato che per lei «l’erba a forma di cuore non serviva per Black Panther ma per salvare mio fratello». Questa convinzione si sbloccherà solamente a causa di un sentimento di vendetta. Tutto il film si gioca su una forte contrapposizione tra il cuore di sua madre, “in pace” ma allo stesso tempo ferita dalla perdita del figlio, e la forte razionalità di Shuri, che la chiude in una “bolla tecnologica” dalla quale non vuole uscire. Emblematica è la scena dove la madre la invita a bruciare le vesti funebri del fratello, un rito che in quella terra africana indica «la fine del lutto e l’inizio di un nuovo rapporto con il defunto e soprattutto con te stessa», un rito che la giovane donna si rifiuta di eseguire. Non è ancora pronta.



Non è una storia di supereroi, ma piuttosto una storia fortemente umana, anche se gli elementi scenografici e gli scontri non mancano, com’è doveroso nel MCU. È la storia di Shuri, del suo dramma interiore e del suo desiderio di vendetta a seguito di alcuni avvenimenti che si svolgeranno durante la storia. La principessa trasformerà Black Panther da strumento di protezione di un regno ad arma di guerra («Sono Black Panther e voglio vendetta!»), salvo poi fermarsi all’ultimo.

In tutto questo, non slegato dalla storia presente, c’è il culto per gli antenati, per le tradizioni e per la memoria: «un popolo senza memoria non è popolo» (Francesco, Meditazione mattutina, 30 maggio 2016). Una memoria che, se distorta dalla sola materialità scientifica di Shuri, rischia di essere la cementificazione di un tempo passato e non una parte della propria storia, intrappolandola in un presente pieno di rimorsi e nostalgia.

È una storia che ne racchiude altre, una storia d’amore, di vendetta, di lacrime, di accettazione e, infine, di pietà.

In primis verso sé stessi.

Perché è solo da questo, da un atto di pietà, che può germogliare di nuovo la vita.

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