Per gli studiosi di media e comunicazione, Black Widow rischia di essere un prodotto molto interessante, al di là del fatto che potrebbe essere il film che davvero fa ripartire la voglia di cinema in tutto il mondo: il film Marvel, infatti, avrebbe dovuto iniziare la Fase 4 della vita degli studio, dopo il punto e a capo di Avengers: Endgame, ma a causa della pandemia non ha potuto e questo compito è spettato alle serie tv, come WandaVision o Loki. Il dato interessante sembra essere la reale mancanza di differenza tra i due medium, se non per la durata dei singoli prodotti, come se l’omologazione del linguaggio avesse (finalmente, per qualcuno) abbattuto le barriere.
La Vedova Nera del titolo è Natasha Romanoff, morta alla fine di Endgame di cui qui si raccontano le origini, quando bambina viene abbandonata con la sorella dai genitori in fuga per essere spie sovietiche e affidate alle “cure” di Dreykov che le cresce come Vedove, spie inesorabili e prive di libero arbitrio. Quando però una partita di un virus che libera le Vedove dal controllo del capo arriva in mano alla sorella Yelena, le due donne dovranno riunirsi alla famiglia nel tentativo di liberare le spie soggiogate.
Diretto da Cate Shortland e scritto da Eric Pearson (a partire da una storia di Jac Schaeffer e Ned Benson), Black Widow gioca con l’immaginario della spy story soprattutto nella sua versione ludica e sopra le righe, non a caso in una delle prime sequenze Natasha vede Moonraker, il più “sciocco” dei film di 007, quel film sembra essere un punto di riferimento sia per l’andamento narrativo, sia per il tono del racconto. Ovviamente, all’armamentario delle spie in chiave supereroica si deve aggiungere un tot di presunta riflessione sul patriarcato e le sue ancelle, con le spie femmine rapite da bimbe, radiocomandate e controllate da un cattivone che ricorda Gérard Depardieu e i suoi personaggi più viscidi.
Quello che però, alla fine di due ore e un quarto col pilota automatico, balza agli occhi se non ci si accontenta è che l’universo cinematico della Marvel sembra ormai aver abdicato all’idea del grande schermo, della sala cinematografica e dei suoi annessi e connessi, sembra puntare diretto sul piccolo schermo, sulla fruizione casalinga. Non solo perché il film in sala e contemporaneamente su Disney+ e potrebbe essere così per moltissimi dei nuovi blockbuster (fumettistici e non), ma soprattutto perché la costruzione della narrazione e delle immagini va in quella direzione.
L’azione non porta quasi mai avanti il film, non costruisce dinamiche o tensione, sembra solo il contrappunto spettacolare al dramma familiare e personale che Shortland mette in scena, spezza il piatto ritmo dei dialoghi, dei personaggi macchiettistici, delle beghe da serie tv, ma non lo ravviva davvero tanto che, come già in Avengers 2 e in altre operazioni Marvel, a metà film si blocca tutto e comincia un teatrino di sentimentalismi, umorismo e dialoghi che trasporta lo spettatore fuori dallo schermo e dentro una dimensione quasi da sitcom (non aiuta lo spessore irrisorio dei personaggi, come Red Guardian, purtroppo), persino i titoli di testa paiono quelli di una serie; ma anche nell’azione e nell’avventura, manca una visione creativa che la sollevi da uno standard produttivo e realizzativo, che non dia l’impressione di un fast food che assembla in modo meccanico ingredienti senza personalità.
Non che sia più brutto o deludente di altri film simili, e forse è questo il problema, l’omologazione e la serializzazione rischiano di fare lo stesso effetto alla critica, ma Black Widow è l’ennesimo segnale di una rimodulazione fruitiva in nome dello streaming e della tv casalinga che ancora non ha trovato un suo estro o una sua inventiva, che per ora riduce le possibilità del prodotto, abbassandolo al grado zero anche in quella che dovrebbe essere la sua ragion d’essere: la meraviglia, lo stupore.
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