La proroga del blocco dei licenziamenti fino al 31 ottobre p.v., anche per i comparti manifatturieri del tessile, dell’abbigliamento e delle calzature, e per le aziende in crisi già nella fase precedente all’emergenza Covid, rappresenta per il Governo un punto di incontro tra le diverse posizioni espresse dalle forze politiche della maggioranza parlamentare, e una possibile mediazione tra la richiesta avanzata dalle Confederazioni sindacali dei lavoratori di allineare la proroga del blocco per tutti i settori e l’esigenza espressa dalle varie associazioni dei datori di lavoro di poter avviare le riorganizzazioni aziendali per adeguare alle mutate condizioni economiche.



Un risultato confortato dalla redazione di un avviso comune sottoscritto con le parti sociali al termine di un lungo confronto, che impegna le aziende, comprese quelle che usciranno dal blocco a partire dal 1° luglio, a utilizzare tutti gli ammortizzatori sociali straordinari e ordinari prima di procedere a eventuali licenziamenti.



Tutto questo sul piano formale. Su quello sostanziale, a nostro modesto avviso, l’impatto della novità non dovrebbe essere significativo. L’utilizzo delle casse integrazioni prima di procedere ai licenziamenti è di fatto una consuetudine per le aziende. Lo stesso Decreto sostegni bis, in fase di conversione in legge da parte del Parlamento, e che sarà  emendato per recepire le novità, già prevede il prosieguo del blocco dei licenziamenti fino alla fine dell’anno in corso per tutte le aziende, anche per quelle dei settori che fuoriescono dal divieto, se  decidono di utilizzare la cassa integrazione con la causale Covid integralmente a carico dello Stato. Non a caso, una delle proposte alternative circolate negli ultimi tempi era quella di prorogare il blocco dei licenziamenti sulla base dell’intensità degli utilizzi aziendali delle Cig e delle perdite di fatturato. Un’ipotesi che non si è concretizzata per la necessità di dare un segnale di ritorno alla normalità per quei settori dell’economia che hanno già recuperato i livelli di attività precedenti la crisi Covid e che prevedono, come nel caso delle costruzioni, una forte espansione degli investimenti e una difficoltà nel reperire nuova manodopera.



Piuttosto non si comprende perché queste contraddizioni, segnalate non solo dalle imprese ma anche dalle rilevazioni degli istituti di ricerca, continuino a rimanere ai margini dei confronti tra il Governo e le parti sociali. Con le possibili soluzioni rimandate agli esiti miracolistici della riforma degli ammortizzatori sociali, e dei buoni propositi di rafforzare le politiche attive del lavoro, che ripropongono gli schemi fallimentari già sperimentati nel corso degli anni precedenti.

Questi problemi non possono essere affrontati con l’approccio di tipo emergenziale, ma con una valutazione più complessiva dell’impatto delle scelte sulle attività produttive e nel mercato del lavoro. E questo avviene perché il comportamento delle rappresentanze sociali è inevitabilmente condizionato dalla comprensibile esigenza di tutelare al meglio le condizioni esistenti dei propri associati.

Proviamo a mettere in fila la valutazione di queste conseguenze con l’ausilio delle statistiche che sono ufficialmente disponibili.

La norma sul blocco dei licenziamenti rischia paradossalmente di rendere ancora più ingestibile la bolla dei posti di lavoro che vengono formalmente mantenuti in vita con i sussidi dello Stato, alimentando una sorta di serpente che si mangia la coda, e che comportano nell’insieme un aumento delle criticità nel mercato del lavoro.

Tra i Paesi sviluppati, questo dispositivo è in vigore solo in Italia, anche per le imprese che hanno ripreso la normale attività, e ha comportato una riduzione della quota fisiologica degli esodi aziendali promossi dai datori di lavoro per giustificati motivi, dagli 1,137 milioni nel 2019 ai 775 mila del 2020, e di quelli per i licenziamenti per giustificato motivo o giusta causa, da 866 mila a 558 mila (fonte: Sistema delle Comunicazioni obbligatorie per i datori di lavoro del ministero del Lavoro).

Questa tendenza ha comportato un paradossale aumento di 220 mila occupati dipendenti a tempo indeterminato, a fronte di una riduzione di oltre 600 mila posti di lavoro complessivi determinata essenzialmente dalle mancate assunzioni di lavoro a termine e dal calo delle nuove aperture di partite Iva per i lavoratori autonomi. La rilettura di questo fenomeno operata dall’Istat, con le nuove metodologie di stima convenute a livello europeo a partire dal 1° gennaio del 2021 che escludono dal calcolo degli occupati i lavoratori in cassa integrazione a zero ore da almeno tre mesi e quelli autonomi che non hanno esercitato l’attività per un analogo periodo, quantifica la perdita effettiva dei posti di lavoro oltre le 900 mila unità. Un calcolo che ci consente, per differenza, di stimare in 250 mila unità la quota del personale in cassa integrazione potenzialmente a rischio di licenziamento. L’Ufficio parlamentare di bilancio ritiene che questo numero possa essere ridotto ulteriormente a 70 mila anche per via dei prepensionamenti previsti per i lavoratori anziani.

I dati sui licenziamenti avvenuti nel 2020, pur tenendo conto che la norma è entrata in vigore dal mese di marzo, evidenziano che il blocco ha prodotto effetti significativi solo per una parte del mondo del lavoro, per effetto delle esclusioni già previste dalla norma (lavoro domestico, chiusure aziendali o fallimenti, presenza di accordi aziendali per la gestione degli esuberi), e per la rilevantissima quota delle micro imprese nel tessuto produttivo italiano dove la possibilità di reggere i costi del lavoro in assenza di attività economiche risulta molto problematica. Nei settori dei servizi più colpiti dalla crisi la riduzione del numero degli occupati si è realizzata con i mancati rinnovi dei contratti a termine e di quelli stagionali.

In buona sostanza, il blocco dei licenziamenti si è trasformato in via di fatto in un aumento dei posti di lavoro sussidiati dallo Stato, e dei tempi di utilizzo dei sostegni al reddito per i lavoratori interessati, nei comparti che possono usufruire anche in via ordinaria di abbondanti ammortizzatori sociali, e per le imprese superiori ai 100 dipendenti, che possono gestire gli esuberi sottoscrivendo accordi sindacali, i cosiddetti contratti di espansione, che possono anticipare fino a 5 anni il prepensionamento dei lavoratori anziani. All’opposto tutto questo non avviene, per le piccole aziende e per i settori caratterizzati da elevata mobilità lavorativa, che rappresentano la stragrande maggioranza del sistema delle imprese e dell’occupazione.

Nel contempo il prolungamento sistematico dei sostegni al reddito sta producendo delle forti distorsioni nei comportamenti della domanda e offerta di lavoro. Tra prolungamenti di casse integrazioni, indennità di disoccupazione a diverso titolo, redditi di cittadinanza e di emergenza, sono più di 5 milioni le persone che attualmente usufruiscono di sostegni al reddito. Un numero pari a un terzo degli occupati nelle aziende private italiane, ed equivalente ai lavoratori che, in condizioni ordinarie, vengono annualmente avviati in nuovi rapporti di lavoro, il 70% dei quali con contratti a termine o stagionali.

Nei tempi recenti sui mass media abbondano le polemiche che contrappongono alle dichiarazioni delle associazioni dei datori di lavoro di molti settori di attività che mettono in evidenza la difficoltà a reperire nuovo personale, anche per l’indisponibilità dei disoccupati a rinunciare ai sussidi al reddito, le testimonianze dei disoccupati che denunciano di aver ricevuto proposte a condizioni di salari e di orari inaccettabili. La contrapposizione non ha molto senso: i due fenomeni possono convivere in un sistema produttivo caratterizzato da ampie aree di lavoro sommerso e di persone che cercano lavoro prive di sostegno al reddito. Semmai, dato l’elevato numero dei beneficiari, si tratta di comprendere se i sostegni al reddito, soprattutto se generosi e di lunga durata, comportano un effetto disincentivante per l’accettazione di nuove offerte di lavoro contrattualmente regolari. Le analisi sul campo confermano purtroppo che questo fenomeno non solo è diffuso, ma che paradossalmente può essere ampliato per il concorso dei beneficiari dei sostegni pubblici disponibili a lavorare in nero.

La spiegazione è offerta dal mero calcolo razionale. L’accettazione di un’offerta regolare di lavoro, soprattutto se di breve durata, comporta la perdita dell’assegno pubblico in cambio di una prestazione lavorativa, soprattutto se a termine, che consente di introitare poche centinaia di euro in più, assoggettate a tasse e contributi previdenziali. All’opposto, integrare il sostegno al reddito con prestazioni sommerse consente di aumentare gli introiti personali e familiari senza particolari vincoli. Il problema riguarda le prestazioni di lavoro qualificato come quelle a bassa qualificazione, e non dovrebbe essere liquidato con argomenti moralistici, o identificando impropriamente i beneficiari degli assegni pubblici con i fannulloni, ma prevenuto con politiche adeguate.

Infatti, questi sono i motivi che sconsigliano i legislatori a mettere in campo sostegni al reddito troppo generosi, e soprattutto a condizionare l’erogazione alla disponibilità di accettare nuove offerte di lavoro da parte dei beneficiari, verificata da operatori accreditati. Tutto il contrario di quanto è avvenuto e continua ad avvenire in Italia.

Sintesi finale. Il prolungamento del blocco dei licenziamenti aumenta il numero dei posti di lavoro sussidiati dallo Stato, nei settori, nelle aziende e per i lavoratori che beneficiano di più ampie tutele e dov’è possibile gestire gli esuberi con misure di pensionamento anticipato. Mentre non offre analoghi benefici a quelli caratterizzati da elevata mobilità del lavoro, e dove l’ampliamento dei sussidi al reddito genera disincentivi per l’accettazione di offerte di lavoro regolari e favorisce l’aumento del lavoro sommerso. Condizioni che penalizzano in particolare le persone che cercano lavoro senza beneficiare di sostegni al reddito.

È possibile affrontare seriamente questo problema? Due cose si potrebbero fare da subito. Per supplire alla carenza di servizi efficaci di incontro tra la domanda e offerta di lavoro si potrebbero generare nel territorio, con il concorso di imprese e sindacati dei lavoratori e dei servizi per l’impiego pubblici e privati, delle liste di disponibilità delle persone in cerca di lavoro e delle imprese che lo offrono, assicurando agli interessati dei ragionevoli percorsi formativi e l’utilizzo degli sgravi contributivi per le imprese che li assumono. In parallelo potrebbe essere consentito ai beneficiari dei sostegni al reddito, e tenuti ad accettare le nuove offerte di lavoro, di poter integrare parzialmente il salario con una quota dell’assegno pubblico percepito, e di poter di nuovo usufruire di questi sostegni alla scadenza degli eventuali contratti a termine. In questo modo si potrebbero ottenere nell’insieme vantaggi per le imprese, per i lavoratori e per l’erario pubblico.

Non rappresenta la soluzione di tutti i mali, ma una concreta possibilità di sperimentare soluzioni innovative. Una sorta di cartina di tornasole dell’effettiva volontà di rafforzare le politiche attive del lavoro.

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