Quasi a tempo scaduto, ma un accordo su come gestire la fine del blocco dei licenziamenti è arrivato. Vediamo prima di tutto il merito dell’accordo. Il Governo non voleva più procedere con una proroga generalizzata del blocco legato all’applicazione della cassa integrazione.

L’ingessatura del mercato che ne era derivata ha fatto emergere un dualismo del mercato del lavoro che chiedeva altri strumenti di intervento. La situazione diventava pesante per i lavoratori perché lasciava scoperti molti occupati non tutelati dal sistema, oltre che non indicare strumenti per la ricollocazione per coloro che non sarebbero comunque rientrati al lavoro. Anche per le imprese la situazione stava diventando pesante. La ripartenza ha caratteri asimmetrici come gli effetti della crisi. Alcuni settori hanno bisogno di muoversi con un mercato del lavoro in ripresa, formare e assumere nuovi lavoratori. Altri vedranno il ritorno alla normalità solo fra molti mesi e hanno bisogno di strumenti che aiutino le transizioni della digitalizzazione e del cambiamento dei mercati di riferimento.



Le organizzazioni sindacali hanno chiesto con le manifestazioni di sabato scorso di prorogare la situazione fino al mese di ottobre. Anche la loro piattaforma apriva però spiragli. La proroga era legata a recuperare del tempo al fine di creare un sistema di ammortizzatori sociali nuovi. Era evidente che la crisi ha posto il problema di operare una riforma degli ammortizzatori sociali per assicurare una maggiore universalità e, assieme, introdurre un sistema di politiche attive che sia di sostegno nei passaggi lavorativi. Insieme a questi interventi di riforma occorre prevedere un grande piano di formazione che aumenti complessivamente l’occupabilità di tutti i lavoratori. Un vero e proprio grande investimento per incrementare il capitale umano complessivo del Paese.



La sintesi finale trovata cerca di mantenere in vita l’abbinamento cassa integrazione-blocco dei licenziamenti solo per i settori in crisi (vedi la chimica, il tessile e la sua filiera) e anche per le imprese in crisi con programmi già in discussione ai tavoli nazionali. Per le altre aziende si procede invece alla sospensione della normativa, ma, con un accordo sottoscritto fra associazioni di rappresentanza imprenditoriale e organizzazioni sindacali dei lavoratori, ci si impegna reciprocamente a utilizzare le 13 settimane di Cig ancora disponibili prima di ricorrere a eventuali licenziamenti.



Le formule finali indicano che si è cercato, di fronte alla necessità di operare un taglio con la legislazione emergenziale del periodo di crisi, di trovare modelli flessibili che permettano di gestire meglio gli impatti sociali che si creeranno. Sarà compito del Legislatore cercare di varare adesso provvedimenti che riescano a cogliere al meglio le proposte e lo spirito degli accordi raggiunti. Si è già fatto notare come l’uso dei soli codici ATECO per definire i settori economici e le filiere produttive connesse sia ormai uno strumento che non è più in grado di fotografare la realtà produttiva. Se questo fosse l’inizio di una riforma della definizione e della catalogazione delle imprese in cui coinvolgere le parti sociali e le Camere di commercio sarebbe l’avvio di una modernizzazione importante per il nostro sistema economico.

Per rispondere anche allo spirito dell’accordo c’è bisogno di procedere celermente alle riforme degli ammortizzatori sociali e a definire il sistema nazionale di politiche attive del lavoro. Su questi temi il ritardo di elaborazione è profondo. I continui rinvii coperti dalle proroghe del blocco dei licenziamenti non sono state usate per produrre disegni attuativi. Adesso occorre recuperare il tempo perduto. La crisi ha ulteriormente dimostrato che nel lavoro si è ormai passati dal posto al percorso. Da un posto di lavoro a vita (sopravvive solo nella Pubblica amministrazione) a un percorso di lavori. Il proprio valore lavorativo va sempre più tutelato con formazione e aggiornamento. Diritti e tutele vanno perciò ridisegnati in funzione di questa nuova realtà.

La capacità del Governo di avanzare proposte attuative su questi temi sarà determinante per dare solidità all’accordo raggiunto, ma soprattutto per dare forza alla realizzazione degli obiettivi del Pnrr.

Detto ciò occorre fare anche qualche riflessione di metodo. Come avviene tradizionalmente per le trattative sindacali si arriva al tavolo decisivo all’ultimo minuto con la pressione del tempo a fare da spinta per trovare comunque una via di uscita. La mediazione trovata ha soddisfatto i punti principali delle posizioni di partenza delle parti in campo. È stata dopo tempo anche una riproposizione di un metodo di concertazione che per molto tempo ha caratterizzato il confronto fra parti sociali e Governo. Questa è sicuramente la via con cui tradizionalmente in Italia si è lavorato per contenere le fasi di tensione economica e sociale e anche questa volta l’esecutivo è riuscito a delineare una via d’uscita dall’impasse raccogliendo le adesioni di tutti.

Il rito ha però mostrato tutta la sua stanchezza. Non è più tempo di un sistema concertativo che assegnava ai sindacati una sorta di potere di veto. Questo tema è stato già archiviato qualche anno fa e non se ne sente la nostalgia. Ciò che serve è un salto di qualità delle rappresentanze perché ci si incontri per tracciare nuove vie di sviluppo con scambio reciproco di responsabilità.

La crisi ha accelerato i processi sociali e del lavoro sotto molti aspetti. Anche le forme e i contenuti delle rappresentanze sociali suonano spesso fuori tempo. Oggi occorre impostare un grande patto per il lavoro e lo sviluppo. Portare idee e disponibilità ad assumersi responsabilità operative per ridisegnare il modello degli ammortizzatori sociali e delle politiche attive del lavoro richiede un nuovo modello concertativo fatto di condivisione e di una visione del lavoro che supporti le nuove sfide aperte per una crescita sostenibile e inclusiva.

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