Le spiegazioni offerte dal ministro del lavoro Orlando, con l’ausilio di numerose interviste, al pasticcio generato dalla norma per la proroga del blocco dei licenziamenti, inserita all’ultimo momento nel testo del decreto “Imprese, lavoro e professioni”, non chiariscono affatto l’accaduto. Anzi, confermano la debolezza delle politiche messe in campo per gestire la complicata transizione del nostro mercato del lavoro verso la ripresa post-Covid. Se l’obiettivo era quello di accompagnare l’uscita dal blocco dei licenziamenti per le imprese dei comparti industriali e delle costruzioni, a partire dal 1° luglio pv, con la possibilità per le stesse aziende di utilizzare la cassa integrazione ordinaria senza pagare le addizionali contributive normalmente previste, con la condizione di non licenziare i dipendenti fino al 31 dicembre p.v., perché non lo si detto esplicitamente senza ingenerare la confusione con una norma che prevedeva la possibilità da parte delle aziende di richiedere ulteriori mesi di cassa integrazione Covid, prima della scadenza del 30 giugno, allungando fino al 28 agosto il blocco dei licenziamenti? 



La sortita del Ministro Orlando era evidentemente orientata a offrire una risposta alla richiesta avanzata dalle Confederazioni sindacali di allineare la scadenza del blocco dei licenziamenti per i settori dell’industria e delle costruzioni a quella del 31 ottobre prevista per le piccole imprese e per i comparti dei servizi. E che si trattasse di un’iniziativa improvvisata lo dimostra il fatto che la norma non era accompagnata dalla valutazione dell’impatto occupazionale e delle previsioni obbligatorie per la copertura di bilancio per il mancato introito delle addizionali, stimata successivamente in 168 milioni di euro.



La soluzione finale non ha riscontrato il favore di entrambe le parti sociali, un esito in parte scontato, e si presta a diverse interpretazioni. In teoria dovrebbe consentire di uscire dal blocco, in aggiunta alle imprese che non utilizzano la Cig, anche quelle che la richiedono, pagando le addizionali previste dalla legge ordinaria, e di mantenerlo solo per le singole unità produttive dei grandi gruppi aziendali che utilizzano la Cig agevolata. Tutti aspetti che dovranno essere chiariti con le prossime circolari ministeriali. 

In via generale dovrebbe essere offerta una spiegazione al perché la terapia del blocco dei licenziamenti venga prorogata in Italia senza alcun riscontro analogo negli altri Paesi europei. Con risultati che non sono dissimili nei saldi occupazionali finali, ma che lo sono nella media dei Paesi europei per il contributo offerto dalla componente della nuova occupazione rispetto a quella offerta dal blocco dei licenziamenti in Italia, per un equivalente stimato di mezzo milione di occupati.



Il risultato non è indifferente. Perché non è affatto detto la componente dei posti di lavoro “salvaguardati” con il doppio binario della Cig e del blocco si dimostri tale anche in uscita dalle misure di contenimento basate su queste misure. In pratica stiamo cercando di prendere tempo e di allontanare l’amaro calice degli esuberi, in attesa di tempi migliori. Cioè di una ripresa dei consumi che si riveli migliore delle previsioni, ovvero, come paventato da molti, che nel frattempo siano state messe in campo adeguate politiche del lavoro per favorire il reinserimento dei disoccupati.

In realtà queste speranze rischiano seriamente di essere deluse. Intanto perché anche queste politiche comportano dei costi. Quelli finanziari, molto consistenti, legati all’ulteriore ampliamento dell’utilizzo delle Cig per un numero molto più consistente di lavoratori, e per tempi più lunghi di utilizzo degli ammortizzatori sociali, rispetto a quello previsto per le indennità di disoccupazione (Naspi). Quelli impliciti sono legati al mancato adeguamento delle organizzazioni produttive e all’effetto di scoraggiamento sulle nuove assunzioni. L’effetto conservativo tende a tutelare ulteriormente le componenti più garantite del mercato del lavoro, e quelle più socialmente rappresentate, a discapito delle persone che cercano lavoro.

Anche i provvedimenti adottati per gestire gli esuberi con riduzioni di orario collettivi (i contratti di solidarietà) e i prepensionamenti anticipati (i contratti di espansione) sono congeniali alle aziende medio grandi o comunque quelle che hanno la possibilità di sostenere gli oneri di questi interventi. Il potenziamento delle risorse pubbliche messe a disposizione, e l’ampliamento del numero delle aziende che possono utilizzare i contratti di espansione, non modificano l’essenza del problema.

La combinazione di una riforma espansiva degli ammortizzatori sociali con la promessa di avviare adeguate politiche del lavoro, tanto cara al ministro del Lavoro in carica, e agli altri due ministri che l’hanno preceduto in questa legislatura, non è affatto detto che produca l’effetto desiderato. Giova sottolineare che tutti gli studi in materia confermano che esiste un rapporto inverso tra l’ampliamento dei sostegni al reddito e l’efficacia delle politiche attive volte a reinserire i lavoratori. Questo è particolarmente vero in Italia dove l’efficacia delle condizionalità per la ricerca attiva del lavoro da parte dei beneficiari dei sostegni al reddito, e la perdita del sussidio nel caso di rifiuto di offerte di lavoro congrue, è praticamente inesistente.

Il complesso delle politiche del lavoro, al di là delle promesse di rafforzare gli interventi rivolti a favorire l’occupabilità e l’orientamento per l’incontro tra la domanda e l’offerta offerta di lavoro, continua a essere caratterizzato da una miriade di interventi e di attori, scoordinati tra loro (ministeri dello Stato, Regioni, Province, istituti di formazione, servizi per l’impiego pubblici e privati, fondi bilaterali delle parti sociali per la formazione e la gestione delle crisi aziendali…). Altrettanto avviene con la proliferazione del numero degli incentivi per le assunzioni e delle modalità di inserimento lavorativo che non sono mancate anche in questa legislatura. Le risorse, i progetti, gli strumenti aumentano, ma altrettanto le distanze con i risultati ottenuti dagli altri Paesi europei. E senza nemmeno analizzare le ragioni dei ripetuti fallimenti che vengono genericamente ricondotte alla dispersione delle competenze tra Stato e Regioni, e alla carenza delle risorse finanziarie.

Politici, esperti di varia natura, imprenditori e sindacalisti, commentatori specializzati e non, tutti si affannano, a ragione, ad affermare che tutto non sarà come prima. In particolare per il lavoro destinato a mutare per le caratteristiche professionali, dei rapporti di lavoro e per le modalità di gestione delle risorse umane. Un vero peccato che questi tratti, già evidenti in molte parti delle organizzazioni produttive, siano del tutto assenti nelle politiche per il lavoro, che continuano ad assomigliare in modo preoccupante a quelle del passato.