Nelle comunicazioni alle Camere in occasione del dibattito sulla fiducia, Mario Draghi non ha affrontato problematiche particolari, ma non ha trascurato di indicare gli indirizzi in base ai quali saranno orientate le riforme. Per quanto riguarda il lavoro ha voluto sottolineare – anche con le statistiche: 4 miliardi di ore di cig a beneficio di 7 milioni di lavoratori – come, nel 2020, le misure di tutela adottate hanno evitato conseguenze più gravi, ma non ha indicato quali saranno le misure concrete e se saranno prorogati gli strumenti finora messi in campo dal precedente Governo – cig da Covid-19 e blocco dei licenziamenti – la cui proroga sembra essere la solo preoccupazione delle organizzazioni sindacali.
Dai silenzi e dalle parole del presidente del Consiglio si intravvede l’adozione di una diversa linea di condotta. Ovviamente, non vi sono le condizioni per cambiare tutto dalla sera al mattino successivo, ma è urgente dare avvio – non solo attraverso dichiarazioni che restano inconcludenti – a una nuova strategia. “Centrali – ha affermato Draghi – sono le politiche attive del lavoro. Affinché esse siano immediatamente operative è necessario migliorare gli strumenti esistenti, come l’assegno di riallocazione, rafforzando le politiche di formazione dei lavoratori occupati e disoccupati. Vanno anche rafforzate le dotazioni di personale e digitali dei Centri per l’impiego in accordo con le regioni. Questo progetto è già parte del Programma nazionale di ripresa e resilienza ma andrà anticipato da subito”.
Ieri un importante quotidiano nazionale ha spiegato come potrebbe avvenire questo anticipo. Su La Repubblica, Valentina Conte ha scritto che il Governo intenderebbe accelerare il piano previsto nel Recovery Plan stanziando al più presto 1,5 miliardi sui 9 miliardi totali per le politiche attive. Già nel suo discorso al Senato Draghi aveva ribadito quanto è e sarà sempre più cruciale la formazione: “Garantire parità di condizioni competitive significa anche assicurarsi che tutti abbiano eguale accesso alla formazione di quelle competenze chiave che sempre più permetteranno di fare carriera: digitali, tecnologiche e ambientali. Intendiamo quindi investire, economicamente ma soprattutto culturalmente, perché sempre più giovani donne scelgano di formarsi negli ambiti su cui intendiamo rilanciare il Paese. Solo in questo modo riusciremo a garantire che le migliori risorse siano coinvolte nello sviluppo del Paese”.
Il perimetro dell’azione del nuovo esecutivo si chiude con un’altra considerazione che costituisce una cesura con le politiche che il Governo Conte 2 non è riuscito a superare: la filiera perversa che ha tenuto la scena da marzo del 2020 a oggi ovvero la sequenza chiusure/cig-Covid e ristori/riaperture/chiusure/cig-Covid e ristori, e blocco dei licenziamenti come trait d’union. “Il Governo dovrà proteggere i lavoratori, tutti i lavoratori, ma sarebbe un errore proteggere indifferentemente tutte le attività economiche. Alcune dovranno cambiare, anche radicalmente. E la scelta di quali attività proteggere e quali accompagnare nel cambiamento è il difficile compito che la politica economica dovrà affrontare nei prossimi mesi”.
È un’impostazione radicalmente diversa da quella che il Governo precedente non era riuscito a lasciarsi alle spalle: congelare tutto nella speranza che alla fine della crisi tutto ritornasse d’incanto come prima. Sviluppare una strategia imperniata sulle politiche attive richiede un lavoro enorme che non si improvvisa con l’assunzione dei navigator (anche se è opportuno non chiudere questa esperienza per partito preso ma valutarne l’utilità magari attraverso una migliore gestione di quella finora (non) assicurata dall’Anpal). Ma è necessario provarci con determinazione perché la struttura produttiva e dei servizi sarebbe recettiva se la si lasciasse lavorare, invece di proibirglielo per legge.
Nell’ultimo Flash sulla congiuntura, il Centro Studi della Confindustria (CSC) sottolinea che “nei servizi la flessione dell’attività è meno marcata a inizio 2021 (PMI risalito a 44,7), ma le condizioni di domanda restano deboli a causa delle misure anti-pandemia ancora in campo. Nell’industria, il PMI è salito a 55,1 a gennaio, segnalando un rafforzamento del recupero; la produzione ha iniziato il 2021 con una crescita dell’1,0%, dopo aver chiuso debole il 2020. I PMI (Purchasing Managers Index) – è noto – sono indicatori delle condizioni economiche del settore attraverso i numeri raccolti dall’occupazione, dagli ordini, dalle merci immagazzinate e dalla crescita, forniti dai responsabili degli acquisti. Quanto all’export – il principale punto di forza del nostro apparato produttivo – se nel complesso del 2020 si è verificata una caduta del 9,2%, vi è stata una progressiva e accidentata risalita dopo il crollo iniziale: tale recupero è stato trainato dalle vendite in Germania, Usa e Cina. Secondo gli ordini manifatturieri esteri, le prospettive per inizio 2021 sono abbastanza positive, specie nei beni intermedi e d’investimento, grazie al rafforzamento della domanda in mercati esteri chiave (Europa e Nord America). Grazie a un graduale recupero – riferisce il CSC – il commercio mondiale è tornato sopra i livelli pre-crisi a fine 2020″. Ma c’è un altro segnale su cui si riflette poco: l’andamento della stagione contrattuale. I rinnovi dei contratti nazionali sono ormai un fatto quotidiano, nonostante le difficoltà della congiuntura: ciò significa che è in corso una lenta e laboriosa “normalizzazione” delle attività economiche sempre che non prevalga la scelta di nuove e più drastiche chiusure. È bene allora adottare una exit strategy graduale ma determinata da un blocco dei licenziamenti che è durato anche troppo, iniziando a contestare la campagna terroristica che prefigura milioni di licenziati alla scadenza.