Il problema che dovrebbe destare maggiori preoccupazioni in questa fase di transizione (in verità non è chiaro il punto di arrivo e neppure se ci siamo messi in cammino) riguarda il “dopo”. Per quanto i sindacati riescano a tirarla per le lunghe, è evidente che il blocco dei licenziamenti (qualunque sia la soluzione che il Governo troverà nel Decreto sostegni bis) è destinato a finire a meno che l’Italia non decida di trasformare le aziende in luoghi di parcheggio – a carico della Cig – di dipendenti che non hanno più un posto di lavoro ma che vi sono affezionati. Non si sa mai. Coi tempi che corrono, quando il “profitto” è tornato a essere “lo sterco del diavolo” lo sblocco dei licenziamenti potrebbe evolvere in una sorta di “imponibile di manodopera” a cui le aziende devono attenersi. Basterebbe prevedere che l’occupazione diventi una variabile indipendente, come si diceva una volta del salario, prima che Luciano Lama, in una storica intervista, svelasse che il “re è nudo”.
Per i sindacati ottenere nuove proroghe del blocco, significa guadagnare tempo nel modo più semplice. E lo fanno perché non sanno che pesci pigliare nel “dopo”. Ma non sono i soli. Tutti parlano di “politiche attive“, di “ammortizzatori universali”, di “mobilità”, di “difesa del lavoro e non del posto”, ma alla fine siamo sempre lì, impantanati sul “che fare?”. Prima di immaginare strumenti nuovi , bisognerebbe chiarirsi le idee sulla strategia.
Vi sono due tipi di ammortizzatori: quelli che intervengono all’interno del rapporto di lavoro e quelli che servono a garantire un reddito per un certo periodo a chi il lavoro lo ha perduto (la legge, è noto, tutela solo la disoccupazione involontaria alla quale è equiparata la risoluzione consensuale). Da noi vi è la tendenza a implementare la tutela del primo tipo, nella convinzione che sia preferibile un legame soltanto giuridico con un’azienda, anche se in assenza di un riscontro con un posto di lavoro effettivo. La legislazione più recente (dalla legge n. 92/2012 al pacchetto Jobs Act del 2014-2015) aveva separato con più nettezza il ruolo degli ammortizzatori sociali, ridimensionando l’attitudine allo slittamento in avanti del sistema Cig, ma prevedendo un limite dopo il quale si passava al regime della disoccupazione.
Interventi successivi hanno riaperto una zona grigia per la continuità della Cig legata a vaghe prospettive di rilancio dell’azienda decotta, magari in attesa di nuovi acquirenti o persino di nuove politiche industriali nel territorio circostante. È evidente che occorre spostare l’intervento e le relative risorse, attraverso il c.d. assegno di ricollocazione all’agenzia o al Centro per l’impiego, nella ricerca di un nuovo lavoro, ma su questo terreno se non siamo all’anno zero ci stiamo vicini. Per di più l’esperienza del reddito di cittadinanza – con la pretesa di tenere insieme la lotta alla povertà e l’offerta di occasioni di lavoro (fino a tre in 18 mesi) – ha instradato il percorso accidentato delle politiche attive verso un totale fallimento, assorbendo risorse che sarebbero state impiegate meglio nell’ambito della ricollocazione.
Vi è poi il conflitto di competenze tra Stato e Regioni che certo non aiuta il rilancio dell’Anpal (dimezzata), dopo essere stata (non) diretta per almeno due anni dal Mississippi. Alcune idee nuove – almeno di carattere programmatico – sono contenute in una intervista di Nunzia Penelope a Maurizio Del Conte sul Diario del Lavoro. Del Conte ha fatto parte dello staff di Matteo Renzi ed è stato il primo Presidente dell’Anpal. Ne ha conosciuto quindi i limiti e le difficoltà operative.
“Gli ammortizzatori sociali per essere efficienti – sottolinea Del Conte – devono oggi considerare uno ‘stipendi’ di ricollocamento, una retribuzione per l’impegno che le persone assumono per la loro riqualificazione professionale e il successivo riposizionamento sul mercato del lavoro. Inoltre, è fondamentale che le persone vengano prese in carico velocemente: più a lungo restano lontane dal mercato del lavoro, più difficile sarà ricollocarle. Chi resta abbandonato al sussidio finisce poi – prosegue ancora Del Conte – nella disoccupazione di lunga durata e non si recupera più. Per questo è indispensabile che ammortizzatori sociali e politiche attive stiano assieme: tenere separati il sostegno al reddito da un lato, e dall’altro la rete che dovrà aiutare le persone nella ricerca di una nuova occupazione, accompagnandole e riqualificandole professionalmente, non può funzionare, è un sistema monco”.
A che cosa porta questo ragionamento di una persona che non possiede solo la teoria, ma che ha fatto anche pratica nella gestione del mercato del lavoro? “So di essere in minoranza – Maurizio Del Conte mette le carte in tavola -, ma penso che si dovrebbe togliere dall’Inps la parte assistenza, cioè gli ammortizzatori sociali, e affidarla all’Anpal. Oggi invece vedo che si sta riducendo il ruolo dell’Anpal stessa. Ma se non si ha un unico soggetto che eroga i sussidi e le politiche attive del lavoro, queste ultime restano solo una foglia di fico: l’inutile orpello di recarsi di tanto in tanto al Centro per l’impiego, andare quando ti chiamano, cosa che oggi troppo spesso è un atto puramente formale”. Appunto per questi motivi a chi scrive viene un dubbio: ma se provassimo a fare in contrario?
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