Il 31 marzo scade il blocco dei licenziamenti a un anno della sua prima introduzione per tamponare gli effetti occupazionali negativi dell’emergenza Covid. Come fuoriuscire da questa misura, che rappresenta un unicum nel panorama di quelle adottate nei Paesi aderenti all’Ue, è oggetto di forti tensioni tra le parti sociali, con le organizzazioni sindacali tenacemente protese a richiederne l’ennesima proroga per tutto l’anno in corso, e quelle imprenditoriali disponibili ad assecondare per un periodo più contenuto e limitatamente ai settori più colpiti dagli effetti delle misure di distanziamento anti-Covid. Per il nuovo Governo Draghi l’appuntamento rappresenta una sorta di cartina tornasole per comprendere se, e come, si comincia a marcare una discontinuità con gli interventi promossi nel corso del precedente anno.
Il Governo Conte-bis lascia in eredità un pacchetto di risorse, circa 32 miliardi, di scostamento del bilancio già approvato dal Parlamento per allungare i periodi di copertura delle casse integrazioni (Cig) con la causale Covid, unitamente ai provvedimenti di ristoro per i redditi dei lavoratori autonomi e per i settori più colpiti in conseguenza delle misure di distanziamento, e un’accennata intenzione di prolungare ulteriormente la misura del blocco dei licenziamenti per le imprese che decidono di utilizzare gli ammortizzatori sociali citati.
Secondo una recente analisi della Banca d’Italia, queste modalità avrebbero consentito nel corso del 2020 di evitare circa 600 mila licenziamenti e di preservare una quota di personale delle imprese indispensabile per rimettere in moto le attività una volta superata, in tutto o in parte, la fase dell’emergenza sanitaria. Una valutazione confermata dalla ripresa delle attività che si è concretizzata per una buona parte del settore manifatturiero, tornata ai livelli pre-crisi con la sola eccezione di alcuni comparti dell’abbigliamento. Ma le misure del blocco dei licenziamenti e delle casse integrazioni tra loro combinate si dimostrano efficaci nelle aziende con solide organizzazioni produttive, assai meno in quelle dei settori collegati alla stagionalità dove la diminuzione degli occupati si relaziona prevalentemente alle mancate assunzioni del personale. In generale presentano anche la controindicazione di scoraggiare le possibili nuove assunzioni di nuovo personale e di ritardare l’adeguamento delle organizzazioni produttive alle nuove condizioni del mercato, sicuramente più incerte di quelle precedenti la crisi.
Le tendenze descritte sono confermate dai numeri rilevati dall’Istat: nel corso dei mesi della crisi Covid gli occupati sono diminuiti di 425 mila unità, e nel contempo è aumentato di 160 mila il numero dei disoccupati e di oltre 400 mila quello delle persone inattive. Gli andamenti negativi sono legati essenzialmente all’impatto delle misure di distanziamento su alcuni settori (turismo, ristorazione, piccole attività commerciali, riparazione mezzi, servizi alle persone, pulizie, mobilità), alla riduzione dei contratti a termine e stagionali e alle mancate aperture delle nuove partite Iva. Il blocco dei licenziamenti ha contribuito di fatto ad aumentare il gap esistente tra garantiti e non nel mercato del lavoro, con un incremento di 260 mila rapporti a tempo indeterminato, e di 170 mila lavoratori con più di 50 anni, a discapito dell’occupazione femminile e giovanile che sono le componenti penalizzate dalle mancate assunzioni. In particolare, l’occupazione femminile, fisiologicamente più elevata nei comparti dei servizi, è ritornata ai livelli del 2016 nel giro di pochi mesi (-260 mila).
La stima del numero degli esuberi nel frattempo accumulati all’interno delle aziende è di difficile quantificazione. Le valutazioni delle associazioni delle imprese la quantificano intorno alle 250 mila unità, con la potenziale aggiunta di una parte significativa della quota di lavoratori autonomi e dei dipendenti che operano nelle 200 mila micro aziende considerate a rischio di chiusura. Oggi più che mai diventa necessario collocare le nuove misure di politica del lavoro all’interno di una visione più generale delle potenzialità di crescita della nuova occupazione nel breve e medio periodo.
Le stime europee relative alla crescita del Pil traguardano il recupero dei livelli precedenti alla crisi Covid, per la media dei Paesi aderenti all’Ue, nel primo semestre 2022, ma solo verso la fine del 2023 per l’Italia che si mantiene nello sgradito ruolo di fanalino di coda. Uno scostamento derivante soprattutto dal contributo positivo offerto da una parte dei settori manifatturieri e dalle esportazioni, dall’agroalimentare dalle costruzioni, frenato da una lentissima ripresa delle attività nel complesso dei comparti dei servizi. In particolare, quelli dedicati alla assistenza, all’accoglienza e all’intrattenimento delle persone, del commercio al dettaglio, dei trasporti.
Il nuovo Governo, come ricordato dal presidente del Consiglio alle Camere, si è posto l’obiettivo di riportare in tempi rapidi il tasso di crescita economica sulla media degli altri Paesi dell’Ue. Questo dipenderà essenzialmente dalla efficacia del piano delle vaccinazioni e dalla capacità di ricostruire di un clima di fiducia nel Paese che favorisca la rimessa in circolo di una parte consistente dei 180 miliardi di risparmio aggiuntivo accumulato dalle famiglie sui conti correnti nel corso del 2020. L’evoluzione dei provvedimenti di sostegno alle imprese e al reddito delle persone sarà inevitabilmente condizionata ai tempi della fuoriuscita completa dalle misure di distanziamento anti-Covid disposte dalle autorità.
Il primo provvedimento che sarà adottato entro la fine di febbraio difficilmente si scosterà dagli importi e dagli impieghi che erano stati ventilati dal Governo uscente. Altrettanto probabile, data la ravvicinata scadenza del blocco dei licenziamenti, che venga ulteriormente prorogata questa misura limitatamente alle imprese che continuano a utilizzare le Cig con la causale Covid.
Sulla base dei richiamati pronunciamenti del nuovo presidente del Consiglio, le novità sono attese nella maggiore selettività delle misure privilegiando le aziende e i settori che realisticamente sono nella condizione di rimettersi in moto con la ripresa economica e dalla volontà di potenziare in tempi rapidi le misure di politica attiva rivolte favorire una mobilità dei lavoratori verso nuove opportunità lavorative. Il proposito di distinguere gli interventi da dedicare alla protezione dei lavoratori da quella di salvaguardare i posti di lavoro nelle aziende inefficienti è certamente condivisibile.
L’uscita dalla crisi comporterà, nella migliore delle ipotesi, l’adeguamento delle competenze per milioni di lavoratori. E per una parte significativa degli stessi anche il cambiamento del luogo di lavoro. Il baricentro delle nuove politiche del lavoro deve necessariamente diventare l’obiettivo di rendere sostenibili questi percorsi tramite un complesso di interventi formativi, di orientamento e di facilitazione all’inserimento lavorativo. Ma nel concreto queste esigenze devono far fronte a tre criticità. La prima legata al fatto che la crescita delle persone in cerca di lavoro, almeno per i prossimi due-tre anni sarà superiore a quella delle nuove opportunità lavorative, tenendo conto che in partenza esiste un potenziale di oltre 6 milioni di persone in età di lavoro, disoccupate o scoraggiate, che dovrebbe essere riassorbito. Una seconda riconducibile alla palese inadeguatezza dell’offerta di servizi di orientamento e di formazione finalizzati al reinserimento delle persone. La terza, a mio avviso più rilevante, relazionata alle caratteristiche della popolazione attiva italiana, dal forte invecchiamento della popolazione attiva e dalla debolezza dei percorsi formativi di buona parte di quella occupata.
Di fronte a queste difficoltà è pressoché scontata la tentazione di veicolare le politiche del lavoro verso un prolungamento di quelle passive, che trova un forte riscontro nelle organizzazioni sindacali e in una parte significativa delle forze politiche, destinata inevitabilmente a convivere con la diffusione delle attività di lavoro sommerso, ampliando di fatto gli ambiti di intervento del modello avviato del Reddito di cittadinanza.
Il percorso alternativo può essere rappresentato da una paziente ricostruzione delle reti di orientamento, di formazione mirata all’inserimento lavorativo, mobilitando le istituzioni, le parti sociali con i fondi interprofessionali, gli operatori pubblici e privati dei servizi di orientamento, per mobilitare una rete di assistenza a favore dei lavoratori in difficoltà difficoltà e delle persone in cerca di lavoro fondata su tre assi di intervento:
– ricondurre tutte le politiche attive, superando l’assurda decisione di focalizzare sui beneficiari del Reddito di cittadinanza, all’interno di una unica programmazione concordata tra Stato e Regioni;
– l’assegno di ricollocazione da mettere a disposizione di tutti le persone che a vario titolo sono in cerca di lavoro, o debbano essere reinserire nel mercato del lavoro in modo di consentire a loro di accedere a un’opportunità formativa e di inserimento lavorativo incentivato;
– vincolando rigidamente il beneficio del sostegno al reddito alla accettazione di tutte le offerte di lavoro contrattualmente previste, consentendo di usufruire ulteriormente degli ammortizzatori dopo la cessazione dei contratti a termine.
Nel breve periodo è necessario ridurre il differenziale inaccettabile, soprattutto per le qualifiche medio basse, tra i profili richiesti dalle imprese e l’offerta di lavoro disponibile nel mercato, che è aumentata nel corso della crisi per la carenza delle competenze digitali delle persone disponibili a lavorare. Tema che sollecita l’importanza di promuovere una forte mobilitazione di programmi di alfabetizzazione digitale dei lavoratori e delle persone. Una condizione indispensabile anche per favorire l’auspicata digitalizzazione dei servizi e privati che rimane la condizione primaria per la modernizzazione degli stessi.
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