Il Decreto agosto, pubblicato in Gazzetta ufficiale il 14 agosto, è intervenuto ancora sul blocco dei licenziamenti, senza prevedere però una proroga precisa della sua durata come avvenuto con il Decreto rilancio. «Dopo i due blocchi consecutivi dei licenziamenti per motivi economici (il primo di due mesi, ai sensi del Decreto cura Italia e il successivo di tre mesi, ai sensi del Decreto rilancio) era insorto un dibattito animato sulla utilità e financo sulla costituzionalità di un’ulteriore proroga. Si erano rincorse indiscrezioni su una proroga estesa sino alla fine dell’anno, poi di una proroga coincidente con il termine dello stato di emergenza a sua volta prorogato a ottobre; poi si è parlato di un blocco selettivo dei licenziamenti solo per particolari causali», sottolinea l’avvocato del lavoro Cesare Pozzoli.



E alla fine cos’ha previsto il Decreto agosto?

Ha adottato un blocco a geometria variabile che molti hanno giudicato alquanto indecifrabile e irrazionale, e che consentirebbe ad alcune imprese – tendenzialmente quelle più in “buona salute” – di licenziare… già domani, mentre le altre – quelle tendenzialmente più colpite dalla pandemia – subiranno il “blocco” ancora fino alla fine del 2020.



Può spiegarci meglio?

Anziché prorogare il blocco dei licenziamenti fino a una certa data, eguale per tutti, secondo la tecnica legislativa dei precedenti decreti che almeno su questo punto erano chiari, la nuova disposizione, differente anche dalle bozze precedentemente circolate, prevede all’art. 14 che “ai datori di lavoro che non abbiano integralmente fruito dei trattamenti di integrazione salariale riconducibili all’emergenza epidemiologica da Covid-19 ovvero dell’esonero dal versamento dei contributi previdenziali” introdotto dallo stesso decreto, è “preclusa, indipendentemente dal numero dei dipendenti, la facoltà di recedere dal contratto per giustificato motivo oggettivo.”



Dove sta l’incertezza?

L’incertezza sta appunto nel nesso attuato tra il blocco dei licenziamenti e i “trattamenti di integrazione salariale riconducibili all’emergenza epidemiologica da Covid-19” o “l’esonero contributivo” che non chiarisce se sia possibile licenziare fin da subito da parte delle imprese che non vogliano o non possano oggettivamente fruire di tali misure. Non a caso, gli autorevoli giuristi che si sono già espressi in questi giorni hanno formulato ipotesi interpretative piuttosto differenti.

Per esempio?

Per esempio il prof. Maresca su Il Sole 24 Ore ha ipotizzato che “il divieto di licenziamento non opererebbe […] qualora l’azienda non può ricorrere alla sospensione dei lavoratori o alla riduzione del loro orario, avendo deciso di modificare in modo strutturale l’organizzazione dell’impresa chiudendo, ad esempio, un ufficio o un reparto al quale sono addetti quattro dipendenti. In questo caso l’azienda potrebbe licenziare, ma non accedere alle integrazioni o all’esonero”. Altro autore ha invece rilevato che è “ancora più lontana la scadenza per quelle aziende che non prenderanno l’esonero contributivo (per mancanza del requisito della fruizione di un ammortizzatore Covid nel periodo maggio-giugno 2020), ma nemmeno chiederanno di accedere al nuovo periodo di 18 settimane previsto dal decreto Covid. Per queste dovrebbe applicarsi il divieto di licenziamento fino alla fine dell’anno”; e si potrebbe continuare…

Ci sono alti elementi poco chiari?

Vi sono ulteriori incertezze interpretative sulla portata delle eccezioni al “blocco dei licenziamenti” previste dall’art. 14 del decreto per le imprese coinvolte in un cambio d’appalto, o poste in liquidazione con cessazione totale dell’attività, o fallite senza esercizio provvisorio e, infine, per le aziende che licenzino sulla base di un accordo sindacale, con ciò concedendo un potere enorme ai sindacati senza neppure precisare se l’accordo debba essere preventivo o anche successivo alla comunicazione dei licenziamenti: incertezze che si aggiungono a quelle già evidenziate da molti osservatori e dal sottoscritto anche su questa testata riguardo all’applicabilità del “blocco” ai dirigenti, ai casi di recessi in prova e di recessi dai rapporti a termine, ai casi di licenziamenti per motivi di salute e ad altre situazioni particolari. Si tratta di dubbi che non sono stati in alcun modo chiariti dalla nuova norma, che anche sotto questo profilo si è dimostrata sorda alle problematiche insorte sul piano reale e attuativo.

Fin qui ha detto della incertezza legislativa. Ma dove starebbe l’irrazionalità della norma?

Nel fatto che se un’azienda è stata poco o per nulla coinvolta dalla crisi pandemica e, per esempio, ha chiesto solo un giorno di cassa integrazione può licenziare… da domattina, dopo aver chiesto e goduto di due giornate di “esonero contributivo”. Mentre le imprese più colpite dalla crisi, che per esempio nei mesi scorsi hanno dovuto ricorrere per due o più mesi alla cassa integrazione per Covid e che per questo avranno verosimilmente rilevanti esuberi, dovranno attendere fino alla fine dell’anno chiedendo ulteriori 18 settimane di cassa o quattro mesi di “esonero contributivo”. Che senso ha una simile disposizione?

Quale sarà la conseguenza di questa situazione?

Ai gravi problemi interpretativi sollevati in questa materia se ne aggiungeranno altri, che peraltro riguardano un numero enorme di persone, visto che purtroppo vari osservatori hanno stimato per quest’anno almeno un milione di esuberi. Oltre a tutto ciò vi è anche la fisiologica incertezza dettata dalla continua decretazione d’urgenza con il rischio che, in sede di conversione nei 60 giorni, il Decreto agosto venga modificato, come è già avvenuto in materia di contratti a termine, con ulteriore grave confusione e incertezza, che non possiamo approfondire in questa sede. Oltretutto questo ennesimo blocco è di dubbia legittimità costituzionale, come già osservato da autorevoli giuristi già per il precedente blocco. Qui poi i profili di incostituzionalità sono ancora più smaccati.

Perché?

Per vari motivi. Il primo è che, pur essendo a geometria variabile, in molti casi il blocco dei licenziamenti si protrarrà fino alla fine dell’anno estendendosi per un orizzonte temporale (da marzo a dicembre) eccessivamente lungo e difficilmente giustificabile sul piano della ragionevolezza; e ciò proprio per le imprese che hanno dovuto chiedere in passato più cassa integrazione, e che sono quindi in più grave difficoltà.

Le altre ragioni?

In secondo luogo, perché le imprese “costrette” a non licenziare e che registrano un’eccedenza di personale rispetto alle necessità – ricordo che il Pil, e quindi la produzione delle aziende, è crollato di oltre il 10% – dovranno ricorrere alla cassa: ma questa volta il Decreto agosto prevede una cassa integrazione con oneri rilevanti per le imprese, almeno nei casi in cui il calo del fatturato nel primo semestre non sia stato inferiore di almeno il 20% rispetto al primo semestre 2019. Si tratta quindi di un blocco gravoso per le imprese, già in difficoltà su numerosi altri fronti. Ricordo infine che, anche per la legislazione del lavoro “ordinaria”, al netto delle “alchimie normative” della decretazione di urgenza, resta comunque illegittimo il licenziamento ove sia determinato da esigenze economiche e produttive transitorie e non definitive, come potrebbe essere una difficoltà solo temporanea causata dalla pandemia. Esattamente come avviene in altri paesi europei, penso per esempio alla Germania.

Ha qualche suggerimento?

Come ho già avuto modo di osservare, e come è stato rilevato anche da molti altri autorevoli esperti, questo ulteriore blocco dirigistico non aiuta realmente i lavoratori e si traduce allo stesso tempo in un’innaturale e costosa zavorra per le aziende. Se tuttavia doveva proprio essere adottato un nuovo blocco, era auspicabile che almeno la norma fosse chiara e razionale, il che non è stato. Si è infatti adottato l’ennesimo escamotage di compromesso, spero non al fine di evitare dissensi politici in vista delle prossime elezioni amministrative. È facile prevedere che questa ulteriore ambiguità legislativa si tradurrà in nuovi problemi, burocrazie e contenziosi. In questi giorni, e persino a Ferragosto, sono stato già contattato da diverse imprese che da mesi hanno purtroppo esuberi strutturali e chiedono chiarimenti. Ma la situazione, anche all’esito di approfondimenti, rimane confusa.

La conclusione?

Che quali siano le scelte legislative, esse siano chiare e possibilmente razionali. Nella precedente intervista avevo documentato che, dopo gli ultimi provvedimenti normativi e giurisprudenziali, per un licenziamento illegittimo possono esservi più di 20 diverse conseguenze giuridiche ed economiche, un unicum al mondo. Con questo provvedimento che riguarderà purtroppo un numero enorme di lavoratori e la gran parte delle imprese italiane, alle incertezze sulle conseguenze dei licenziamenti si aggiungono ulteriori incertezze sulle loro possibili causali e tempistiche. E questo non è oggettivamente un buon servizio per il nostro Paese. Fermo restando che la strada maestra rimane sempre quella di porre le aziende nelle condizioni di non licenziare e possibilmente di assumere piuttosto che di vietare ope legis i licenziamenti. I recenti incentivi alle assunzioni di cui all’art. 6 del Decreto agosto e lo sgravio contributivo previsto all’art. 3 per le imprese che rinunceranno a protrarre la cassa sono timidi esempi che vanno nella direzione giusta. Anche se, come ha ricordato Mario Draghi l’altro ieri all’incontro di apertura del Meeting di Rimini, “i sussidi sono una prima forma di soccorso” ma presto “finiranno” e anche di fronte all’enorme debito accumulato dal nostro Paese “occorre dare di più”, specie ai giovani. Anzitutto in termini di educazione e formazione.