Per mesi siamo stati tartassati dalla notizia che sarebbe stato un concerto “phone free”, con il divieto di portare lo smartphone in sala. A parte l’opinabile decisione di far pagare allo spettatore cinque euro per depositare in un sacchetto sigillato il cellulare per una scelta voluta dall’artista o da chi per lui, non è stato poi chissà cosa. Molte persone avevano un secondo cellulare nascosto da qualche parte e hanno filmato, registrato e fotografato lo stesso. Non è poi stato Bob Dylan il primo al mondo a decidere una cosa del genere, era già successo.
La notizia vera è stata invece che i primi due concerti del tour italiano (in tutto saranno cinque) dell’artista americano dopo l’interruzione causata dalla pandemia (l’ultima volta in Italia era stata nel 2018), è stato quanto di più lontano possibile dal mondo dello spettacolo rock and roll del XXI secolo. Tenendo conto che fu lui, nel 1965, presentandosi con una chitarra elettrica e una band di accompagnamento sul palco del festival di Newport, a inventare il concetto stesso di esibizione rock moderna, così come lo è ancora oggi.
La scenografia ricordava molto più un concerto di musica classica in cui il pubblico entra per ascoltare – e ascolta attentamente. Solo un semplice allestimento scenico davanti a un sipario rosso. Durante gli spettacoli, l’illuminazione era tenue e piuttosto buia, ma anche questa da anni è una caratteristica dell’artista, che sul palco, invece di mettersi in esibizione, preferisce nascondersi. Parafrasando il titolo del suo ultimo disco, un finto live in studio registrato due anni fa, Shadow Kingdom, siamo stati invitati a entrare nel regno delle ombre. Le ombre del passato che da anni Bob Dylan canta nelle sue canzoni, quelle di un’America divisa dalle lotte razziali cominciate con la Guerra civile e che non si sono mai placate. Un’America che ha perso ogni fiducia e speranza nel futuro e in quella terra promessa che era alla base stessa della sua fondazione. Di fantasmi, sul palco e intorno al palco, in queste due serate ne sono stati evocati molti, compreso quel “fantasma dell’elettricità” che lui cantava negli anni 60.
Dylan è stato sempre al centro del palco al pianoforte di fronte al pubblico, gli altri musicisti stretti in cerchio intorno a lui. Hanno mantenuto la loro attenzione su Dylan, senza mai muoversi o suonare per il pubblico (due chitarristi, Doug Lancio e Bob Britt, un bassista, Tony Garnier, un batterista, Jerry Pentecost, un polistrumentista che si divide tra pedal steel, violino, chitarra e mandolino, Donnie Herron). Abbastanza strano se ci pensate. L’effetto è stato quello di mantenere tutta l’attenzione non solo su Dylan ma anche sulla sua voce e le sue canzoni.
Lo sapevamo già che questi concerti sarebbero stati ampiamente dedicati al suo ultimo disco di canzoni inedite, risalente al 2020, ma che causa pandemia non aveva avuto occasione di presentare dal vivo. A differenza dei suoi coetanei, ma anche questo lo ha sempre fatto, ha evitato una carrellata di greatest hits concedendo gran parte delle serate alle canzoni di Rough and rowdy ways. Un disco oscuro, apocalittico, che mette insieme JFK e vecchi bluesmen, Hemingway e Giulio Cesare, la presenza incipiente della morte e l’amore, l’ispirazione della musa come qualcosa di inevitabile, delusioni e futuro incerto. Un disco che è un collage di riferimenti alla cultura alta e bassa, un’indagine sulla grandezza e sulla fragilità umana spesso trattata come una serie di ammiccamenti d’intesa. Riguarda la condizione umana; ed è anche abbastanza autobiografico. Questo è Bob Dylan, oggi, un uomo di 82 anni che non desiste dal compito di annunciare al pubblico la nostra condizione precaria, la nostra miseria, ma anche una speranza ineffabile eppur concreta. Tutti i concerti di questo tour infatti si chiudono con il brano Every grain of sand, un affondo nell’intimità spirituale dell’uomo con cenni di William Blake: “Nell’ora della mia confessione, nell’ora del mio più profondo bisogno quando la pozza di lacrime sotto i miei piedi inonda ogni seme appena nato c’è una voce morente dentro di me che si protende da qualche parte nel pericolo e nella morale della disperazione. Non ho la tendenza a guardare indietro a qualsiasi errore. Come Caino, ora vedo questa catena di eventi che devo spezzare, nella furia del momento vedo la mano del Maestro in ogni foglia che trema, e in ogni granello di sabbia”.
L’altra notizia è che Bob Dylan, con questo tipo di concerto, ha ucciso Bob Dylan. Un artista con un repertorio di canzoni immenso di cui la buona metà sono le più celebri della storia della musica rock, ha bellamente evitato questo repertorio, concentrandosi solo su brani nuovi e alcuni brani minori tratti qua e là dal suo catalogo. Un po’ come dire citando una delle sue immortali canzoni, “non sono io quello che state cercando”. Ha in questo modo evitato ogni celebrazione del mito, di quello che ha rappresentato e rappresenta, esibendosi quasi come un esordiente. Dimenticate poi il Bob Dylan arruffone, pasticcione, improvvisatore, che suona in una tonalità diversa dal resto della sua band come spesso accadeva in passato. Ogni nota in queste due serate era perfettamente studiata e al suo posto. Ha cantato ogni singolo verso di ogni singola strofa cosa che ha sempre fatto raramente, cambiando invece le parole o dimenticandone altre.
I due concerti hanno seguito delle scalette identiche da tempo. L’inizio è con Watching the River flow, risalente al 1971, seguito da una tempestante e incalzante Most likely you go your way and I’ll go mine, tratta da quel capolavoro assoluto della storia del rock fu nel 1966 Blonde on Blonde. Un brano che dice tutto quello che c’è da dire sull’artista: “Ti lascerò passare e verrò dopo di te, il tempo dirà chi è caduto e chi è stato lasciato indietro quando tu andrai per la tua strada e io per la mia”. Che è quello che ha sempre fatto, troppo impegnato a dedicarsi al suo destino e alle sue scelte artistiche per impegnarsi con gli altri; lui, un uomo che ha sempre vissuto nell’oltre e altrove, dove solo l’anima dell’uomo può trovare consolazione.
Quindi un paio di pezzi del nuovo disco, I contain multitudes ispirata dall’omonimo verso del bardo americano Walt Whitman, che denuncia la molteplicità e la grandezza del cuore dell’uomo, e la dichiarazione di intenti di False prophet (“Un altro giorno che non finisce un’altra nave in partenza un altro giorno di rabbia, amarezza e dubbio. So come è successo l’ho visto iniziare ho aperto il mio cuore al mondo e il mondo è entrato (…) Ho cercato in tutto il mondo il Santo Graal, canto canzoni d’amore canto canzoni di tradimento Non importa cosa bevo non mi interessa quello che mangio ho scalato la montagna delle spade a piedi nudi (…) non sono un falso profeta, ho detto quello che ho detto” e chi ha orecchie per intendere intenda).
Dylan, che di svolte nella sua carriera ne ha fatte tante, ne ha fatto una ennesima alcuni anni fa, quando si concentrò a pubblicare dischi del cosiddetto Great American Songbook, canzoni degli anni 30 e 40 rese celebri da artisti come Frank Sinatra. Abbiamo vissuto quei dischi come una distrazione, una curiosità, invece lo hanno segnato in modo indelebile. Il suo concerto oggi è una celebrazione di quella musica, che siano sgangherati e traballanti blues che sembrano uscire da una cantina di Chicago degli anni 40, che siano vecchi melodie di appartenenza popolare oppure del country swing texano anni 30. Lo ha dimostrato la seconda serata quando ha tirato fuori dal suo cilindro magico una swingata, effervescente That old black magic che Frank Sinatra fece sua a inizio anni 60: mancava una big band delle sue e l’incanto sarebbe stato perfetto, trascinandoci nella Hollywood del viale del tramonto. Quello che Dylan predilige è un mondo pre rock’n’roll, e in un certo senso sembra dire il futuro non è scritto ma io conosco già cosa succederà. Entrando in un mondo sparito e dimenticato (nessun ragazzo di colore oggi in America suona questo blues purissimo come fa lui) ci porta a un tempo antico, ma allo stesso tempo canta la distruzione e il senso di isolazione e perdutezza di uno che ha vissuto da protagonista l’era del rock’n’roll e ha visto che tutto, oggi nel 2023, sarebbe finito.
Il concerto prosegue così, tra vecchi blues malandati, accenni di country swing, addirittura tocchi di rumba cubana e antiche melodie popolari che risalgono alla notte dei tempi: Black rider, My own version of you, Crossing the Rubicon, Key West, I’ve made up my mind to give myself to you, Mother of Muses, Goodbye Jimmy Reed, intervallate qua e là con nonchalance da brani pescati lungo l’arco di sessant’anni di carriera (I’ll be your baby tonight, To be alone with you, Gotta serve somebody, When I paint my masterpiece).
Alla fine questi più che dei concerti sono stati una lectio magistralis del più grande autore rock che la storia ricordi, di un Premio Nobel per la letteratura che ha spalancato le porte dell’accademia al cuore dell’uomo contemporaneo, alle sue paure, le sue debolezze, certo di una cosa sola: di essere pienamente saldo nelle musiche blues, folk e rock del 900, musiche che come nessun altra forma di espressione umana hanno espresso così saldamente e con tanta commozione che cosa sia la nostra spesso inconscia aspirazione.
Ma attenzione: Dylan rimane un performer rock. Quando lascia andare il freno a mano che ha tenuto saldo per tutta la serata e libera l’animale rock’n’roll che è sempre stato dentro di lui sin da quando ragazzino sognava di essere il nuovo Little Richard, il risultato è spiazzante e devastante: Gotta serve somebody e il tributo a Buddy Holly nella versione che ne fecero i Grateful Dead di Not Fare away fanno venire giù il soffitto del teatro per potenza e intensità.
Ancora una volta, e forse mai così come adesso, abbiamo sperimentato come Dylan non sia solo un grande cantautore con una voce unica, ma un artista vocale unico nel suo genere. A parte qualche cedimento occasionale, ha così tanto controllo e profondità all’interno del suo raggio d’azione che ti lascia incatenato alla poltrona per due ore e ancora una volta ti chiedi: “Qualcosa sta succedendo, ma tu non sai cosa, vero Mister Jones?”.
La sera del 3 luglio, per un personaggio come lui che si tiene nascosto e lontano dal pubblico, ha voluto omaggiare Milano in modo speciale ed inedito facendo qualcosa che non aveva mai fatto prima. Ha fatto ben due cover, la già citata Not fade away, poi ha eseguito un brano che non aveva mai fatto prima, Bad actor della scomparsa leggenda della country music Merle Haggard, una canzone che sembrava cucita apposta su di lui: “Non sono mai stato molto bravo a far credere le persone non ho trucchi nascosti nella manica se la vita è una commedia, dove sono tutte le risate? Perché qui sul palco sono un pessimo attore. Non so cosa vuoi che io sappia quindi prenderò le piccole parti nel nostro spettacolo per famiglie dimmi quale eroe vuoi che interpreti come dovrei sentirmi e cosa dire?”. La sera del 4 invece ha ripescato un brano oscuro dei Grateful Dead, la più grande rock band americana, quella che meglio ha incarnato lo spirito di quel paese, Brokedown Palace. E ha fatto sua anche questa, una ballata dolente e piena di mestizia che è stata al contempo l’omaggio allo scomparso leader di quella band, Jerry Garcia, e una sorta di addio rivolto al suo publico: “Addio tesoro mio Addio mio unico vero amore Tutti gli uccelli che cantavano sono volati via tranne te sola Lascerò questo palazzo in rovina Sulle mie mani e sulle mie ginocchia rotolerò, rotolerò, rotolerò Preparami un letto vicino all’acqua Nel mio tempo, nel mio tempo, rotolerò, In un letto, in un letto In riva all’acqua appoggerò la testa Ascolta il fiume cantare dolci canzoni scuotere la mia anima”.
Quanto è coraggioso un artista di 82 anni che mette se stesso e la sua voce al centro, nudo quanto si può esserlo di questi tempi, senza effetti o scenografie per abbellire, sostenere o nascondere quelle che possono essere concepite come debolezze. E canta senza sosta per quasi 2 ore. Mentre il mondo continua a cercare di celebrarlo come un’istituzione, inchiodarlo, inserirlo nel canone del premio Nobel, imbalsamare il suo passato, questo vagabondo continua sempre a fare la sua prossima fuga. In questo tour, Dylan sta esplorando un terreno che nessun altro ha mai raggiunto prima, continuando a spingersi verso il futuro. Non sappiamo se lo rivedremo ancora, ma siamo grati di aver condiviso parte della nostra esistenza su questa terra nello stesso tempo in cui lo ha fatto lui. Ci siamo sentiti meno soli, e comunque andranno le cose, tornando a casa dopo queste due serate ci sentiamo come dice lui in una delle sue nuove canzoni, “viaggio leggero e sto tornando a casa”. E quell’assolo di armonica durante Every grain of sand, l’unico in tutto il concerto lo conserveremo a lungo nel cuore, come un pegno di amore e condivisione.
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