Il 1977 era stato un anno devastante per Bob Dylan, passato quasi tutto in una lunga e feroce battaglia legale con la ex moglie Sara per l’affidamento dei figli, una lotta che aveva visto anche episodi drammatici come quando il cantante si era recato alla loro scuola per rapirli in automobile. Alla fine, dopo che per alcuni mesi Sara aveva ottenuto dal tribunale di portare i bambini con sé alle Hawaii, era stato sentenziato che dovevano rimanere in California, dove viveva il padre, con affidamento congiunto. Ci sarebbero voluti anni prima che la coppia riprendesse un qualsivoglia tipo di rapporto. Nel tempo libero da questa massacrante battaglia, Dylan si era dedicato in modo ossessivo al montaggio del film Renaldo & Clara tratto dalla prima serie di concerti della Rolling Thunder Revue nel 1975. In questo già pesante frangente, il cantautore era rimasto devastato dalla notizia della morte di Elvis Presley ad agosto: passò una settimana da solo in casa a disperarsi per la perdita.



Nonostante tutto questo travaglio Dylan aveva cominciato ascrivere alcune canzoni nuove nella sua fattoria in Minnesota durante l’estate: Changing of the guards, No time to think e Where are you tonight avevano cominciato a prendere forma in quel periodo.

Nel frattempo aveva anche firmato un contratto in esclusiva per un tour mondiale da tenersi nel 1978, il primo dopo 12 anni, e verso la fine dell’anno aveva chiamato il bassista della RTR Rob Stoner per chiedergli di radunare alcuni musicisti. Il bassista si presentò con alcuni reduci della RTR, tra cui Steven Soles, il batterista Howye Wyeth e David Mansfield. Il gruppetto si radunò in una sala presa in affitto a Santa Monica, diventata nota come i Rundown Studios, ma le condizioni mentali di Dylan erano tali che non combinarono nulla di produttivo. In più il cantante non aveva intenzione di replicare il sound di quel tour e ordinò a Mansfield di gettare via la sua pedal steel: aveva infatti cominciato ad appassionarsi a sonorità black, soul e R&B.



Con l’aggiunta di nuovi musicisti (tra cui l’ex batterista dei King Crimson Ian Wallace dopo l’abbandono di Wyeth che, a causa della sua dipendenza dall’eroina non se la sentiva di andare in tour) e di alcune coriste, il gruppo si ritrovò a provare a gennaio. Dall’imprenditore che aveva già fissato diverse date in Giappone dove Dylan non aveva mai suonato prima, arrivò un ordine perentorio: “Arrivò un telegramma del promoter” ricorda Stoner “dove c’era una lista delle canzoni che voleva fossero eseguite. In sostanza voleva che Dylan facesse un jukebox di successi”. C’era scritto: “Non vogliamo che tu venga qui a fare canzoni nuove, sperimentali o metterti a improvvisare”. Dylan accettò di fare un greatest hits (la somma di denaro era enorme tanto che qualcuno chiamò questi concerti “Il tour degli alimenti matrimoniali”), ma lo presentò in una versione inedita e audace.



Arrivato in Giappone il 15 febbraio accolto dal tipico entusiasmo di quel popolo, assediato come se fossero arrivati i Beatles, il tour cominciò con tre date dal 20 al 23 febbraio al Budokan di Tokyo, per poi continuare con tre altre date a Osaka e poi ancor ancora 5 date di nuovo al Budokan.

Da quelle del 28 febbraio e primo marzo vennero estratti i 22 brani che sarebbero stati pubblicati il 21 agosto di quell’anno inizialmente solo in Giappone per l’album At Budokan, che divenne immediatamente ricercato e importato in tutto il mondo, tanto da costringere la Columbia Records a pubblicarlo a livello internazionale nell’aprile dell’anno dopo.

Il risultato, per chi aveva amato il Dylan del ritorno nel 1974 con The Band o quello selvaggio e zingaro della RTR scioccò gli ascoltatori. Molti critici (ma anche lo stesso Stoner che avrebbe abbandonato il tour dopo i concerti giapponesi, infastidito dall’obbligo di usare appariscenti costumi di scena) definirono quel Dylan “un patetico imitatore di Elvis a Las Vegas”. Altri dissero che l’uso di un sassofonista era un tentativo di imitare l’astro nascente del rock’n’roll, Bruce Springsteen (a cui Dylan risposte come solo lui sa fare: “Steve Douglas ha suonato con Elvis, non è Clarence Clemons…”). Dal palco, un irritato Dylan avrebbe detto: “Spero che non pensiate che questa sia musica di Las Vegas, o disco music, perché non lo è”.

Certamente l’uso di flauto, violino, coriste, inzuccherava il repertorio della band con uno sfarzo e sonorità glam che nessuno si aspettava, senza contare l’uso di arrangiamenti reggae visto che era la musica del momento grazie al trionfale successo di Bob Marley. Ma c’erano comunque pregevoli versioni rallentate di brano come I want you, scatenate versioni hard rock di It’s alright ma, ritmate versioni funk di brano insospettabili come Oh sister e riprese jazzate di classici come Ballad of this man. In realtà Bob Dylan, nonostante l’anno travagliato che si era lasciato alle spalle, aveva cominciato una nuova esplorazione musicale come già fatto in passato e avrebbe poi sempre fatto. Questa volta il suo fiuto si stava dirigendo verso le sonorità afroamericane, l’R&B, il gospel e il soul, come avrebbe fatto poi in maniera ancora più decisa negli anni immediatamente successivi. Allo stesso tempo stava reclamando il suo posto come leader mondiale della scena rock, in un momento storico in cui spuntavano come funghi nuovi idoli e nuovi fronti musicali, il punk su tutto. E avrebbe vinto, anche se con un alto prezzo da pagare. 

Il cofanetto che esce in questi giorni, The Complete Budokan 1978, presenta i due concerti nella loro interezza, con quindi d36 canzoni in più oltre alle 22 già note con l’aggiunta di un libro fotografico a colori di 60 pagine con note di copertina e foto inedite di Dylan sul palco e dietro le quinte, all’aeroporto, alle conferenze stampa e altro ancora, e facsimili di memorabilia come biglietti per i concerti, opuscoli, poster e volantini.

Ci sarà modo di immergersi nuovamente in quelle atmosfere patinate ricordando lo shock di quei giorni lontani, ma è un peccato perché difficilmente la Columbia adesso pubblicherà un cofanetto della serie Bootleg Series con altre registrazioni di quel tour che sarebbe continuato in Nuova Zelanda, Australia, Europa e Stati Uniti. Furono proprio i concerti americani quelli più memorabili di questo tour mondiale. Una volta che Dylan aveva perso la rigidità dei primi concerti giapponesi e la sua band si sarebbe lasciata andare a nuovi stimoli, si sarebbero lanciato in esecuzioni brillanti, magiche, piene di poesia e di rancore, toccando alcuni vertici della sua carriera di sempre.

— — — —

Abbiamo bisogno del tuo contributo per continuare a fornirti una informazione di qualità e indipendente.

SOSTIENICI. DONA ORA CLICCANDO QUI