Bob Dylan compie 80 anni e sono partite le celebrazioni in tutto il mondo, come si fa con le grandi personalità della storia e con i mostri sacri della musica. Eppure, ci sono molte persone tra quelle del mondo di sopra, che allo scoccare dei suoi ottant’anni ancora non lo conoscono al di là della sua fama. Io rischiavo di essere una di queste.



Mentre osservo e leggo con grande piacere i tributi che gli vengono dedicati, penso a quanto mi senta colpevole nei riguardi di questo artista. Colpevole di non averlo mai visto dal vivo. Colpevole di non averlo mai ascoltato con attenzione. Colpevole di non averlo mai attraversato profondamente, almeno fino al giorno in cui mi è servito farlo.



Ho iniziato a leggerlo, prima ancora che ad ascoltarlo, e sono stata coinvolta dalle parole, dalla letteratura che trasuda dalla sua biografia, e soltanto in un secondo momento dalla sua musica.

Conoscere un artista a partire dalla storia che racconta di sé, attraverso vicende talmente avvincenti da sembrare romanzate, è il tragitto inverso rispetto a quello che si compie solitamente. Ma tanto io le strade dritte non le ho quasi mai percorse.

Quando mi sono messa al lavoro sul libro Rock’n’Soul – Storie di Musica e Spiritualità, ho capito che per scriverlo avevo un grande vuoto da colmare e un debito musicale enorme: Bob Dylan. Per fortuna se non è mai troppo tardi per farsi un’infanzia felice (grazie Tom Robbins per questa frase con cui ci svolti la vita), non lo è neppure per scoprire, studiare, imparare. Così ho aperto le porte della percezione alla poetica dylaniana, che in certe giornate mi ha persino dilaniato.



Rendermi conto che ero di fronte a qualcosa di sconfinato, da un lato ha suscitato una forte eccitazione, dall’altro mi ha gettato nello sconforto più totale. Il pensiero che non ce l’avrei mai fatta ad affrontarlo tutto, a esaurirlo, che sarebbe stato difficilissimo scriverne – e soprattutto, con che diritto? – è stato logorante. Ma più leggevo e ascoltavo, più mi tranquillizzavo, perché si palesava ai miei occhi e alle mie orecchie un’epifania: Dylan non si esaurisce mai.

Ho capito che al suo patrimonio non potevo e non dovevo essere certo io a mettere un confine, quello che potevo e che dovevo fare, semmai, era raccogliere gli elementi portanti della sua evoluzione umana e artistica e provare a metterli insieme, raccontarli in modo anche fruibile per chi, come me, non si era per troppo tempo sentito pronto ad approcciare alla Bibbia di Bob Dylan(che non a caso è un triplo volume enciclopedico di Renato Giovannoli, recuperato colpevolmente tardi, anche quello).

Tanto per far capire la complessità della persona, i primi inconvenienti su di lui si sono manifestati a partire dal nome. Una delle certezze che ho lasciato cadesse è legata proprio all’origine del nome: Bob Dylan. Infatti, l’influenza del poeta Dylan Thomas è probabilmente sopravvalutata, se esiste è più inconscia che altro. Negli anni Sessanta, quando lo ha scelto, non ne era così consapevole. Bob è il semplice diminutivo del suo nome di battesimo, Robert e Dylan una reminiscenza, legata al nome del poeta che leggeva in un certo periodo della sua vita. Di fatto gli piaceva il suono delle due parole insieme, tanto da decidere nel 1962 di farlo diventare il suo nome anche legalmente. Ma se ho capito qualcosa di lui, potrebbe anche essere pronto oggi a smentire questa banale certezza, e dirci che il nome lo ha sognato, magari durante uno stato di trance creativa, e noi dovremmo credergli.

Intorno a lui si mescolano (dubbie) verità, mito e leggenda.

Dell’incidente in moto che gli ha cambiato la prospettiva sulla vita e sul modo di fare musica cosa sappiamo veramente? Tutto ciò che ci è dato sapere è in JOHN WESLEY HARDING (1967) il disco realizzato subito dopo questo drammatico evento.

O ancora, della presenza di Cristo avvertita dall’artista in una stanza d’albergo a Tucson? Le risposte, se proprio le vogliamo cercare, le soffia il vento, oppure, anche in questo caso, le potrebbe soffiare la musica, magari quella di SLOW TRAIN COMING (1979).

Parlando di Dylan, non si può prescindere dalle origini ebraiche, prima influenza della sua formazione, e dall’incessante ricerca interiore, motore di tutta la sua creazione artistica. Da giovanissimo è un assiduo frequentatore di tutte le chiese di Hibbing, dove ha trascorso la sua infanzia. Non è un caso che si appassioni alla Bibbia, che diventa uno dei suoi testi di riferimento e attraverso la quale offrirà, più di chiunque altro, una lucida e attenta lettura non solo della società americana, ma del mondo.

Le Sacre Scritture sono una presenza pervasiva in gran parte dei suoi testi e i riferimenti alle storie e ai personaggi dell’Antico Testamento uno dei modi attraverso cui operare feroci critiche al sistema americano, vissuto soprattutto come stato guerrafondaio. Resta abbacinante esempio di ciò With God on Our Side, da THE TIMES THEY ARE A-CHANGIN’ (1964).

Menestrello, profeta, poeta; l’ho sentito appellare in tutti i modi. Ma chi è veramente Dylan? Intorno alla sua figura si incarna il mistero, e per non sbagliare, o perdere qualche pezzo di lui, bisogna riconoscere che è semplicemente tutto, perché il mistero è nella fede, anche in quella che si ripone nell’arte e nell’artista, e non lo puoi spiegare troppo: contiene moltitudini.

Dylan è colto e raffinato; è imprendibile e beffardo, ma non si gioca del suo pubblico. Piuttosto mette in guardia e sollecita. Attraverso la sua visione poetica prismatica, fatta di tante voci, sembra voler svegliare le coscienze e aprire gli sguardi.

Non accontentatevi di quello che vedete, del primo ascolto. La realtà è oltre, è complessa, è dentro; molto in fondo a noi stessi troviamo le chiavi per leggerla e non tutti sono pronti (o disposti) ad arrivare così in fondo, per questo Dylan non è per tutti, anche se è di tutti.

Come artista non ha voluto svelare troppo di sé, pur dicendo molto, non si è mai concesso alla narrazione usa e getta dei social, e dal mondo contemporaneo ha saputo prendere, con la saggezza che lo contraddistingue, la giusta distanza per non essere dimenticato (del resto, cosa impossibile anche per chi non sa nulla, o quasi, di lui). Nonostante la sua vasta produzione, non è mai stato inflazionato da una comunicazione che attraverso la sovraesposizione spianasse la distanza tra mito e quotidianità, rendendo sempre più complicato distinguere il vero dalla realtà soggettiva.

Dylan mi ha insegnato tante cose, la più importante è che per conoscerlo, per entrarci dentro c’è bisogno di fare come ha fatto lui col mondo, aprire il proprio cuore. E come ci ricorda il professor Alessandro Carrera, che tanto ha approfondito e attraversato l’universo del bardo di Duluth: «Non sono sessant’anni che Dylan canta; sono secoli». Amen

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