Vecchio, guarda la mia vita sono come eri tu” cantava Neil Young quando non aveva neanche 25 anni, in una delle sue più famose toccanti canzoni. L’altra sera a Kilkenny, Irlanda, al secondo show insieme dopo quello di Hyde Park a Londra, Neil Young e Bob Dylan si sono guardati negli occhi. Entrambi vecchi, 78 anni Dylan, 74 Young, chissà che pensiero gli è passato per la mente. Nessuno, sicuramente, Quando sei una rock star da più di 60 anni, ogni momento è lo stesso e il tempo sostanzialmente non passa mai. Loro vivono in un tempo fuori del tempo. Un tempo immemorabile, che esiste da sempre e non è segnato da scadenze, nemmeno la morte. Se a Londra, davanti a una folla sterminata che si aspettava un duetto a fine concerto non è successo niente, a Kilkenny, località irlandese conosciuta per lo più per l’omonima birra, hanno invece deciso di cantare, chissà perché, un brano, a fine dello show di Bob Dylan che come a Londra ha chiuso il concerto a cui umilmente Neil Young in entrambi i casi si è prestato a fare da supporter. D’altro canto l’americano è un premio Nobel ed è giusto così, visto che ha cominciato a incidere i dischi mentre il canadese cercava ingaggi negli sgangherati club del nato Canada. Ci sono scale di valore anche nel rock.
Ma perché invece di un classico di Dylan, magari All Along the Watchtower di cui Neil Young, alla festa per l’anniversario del 30esimo anno di carriera discografica dello stesso Dylan, nel 1992, al Madison Square Garden, fece una devastante esecuzione, hanno scelto un antico canto funebre risalente agli anni 40, scritto da A.P. Carter, il leader della leggendaria Carter Family, la prima famiglia della musica country che in un certo senso quella musica contribuì a rendere di successo e simbolo del patrimonio americano? Perché non è più tempo di autocelebrarsi è tempo di ringraziare la vita per quello che ci ha dato.
Will The Circe Be Unbroken racconta di un funerale (“Ero in piedi vicino alla mia finestra, In una giornata fredda e nuvolosa Quando ho visto quel carro funebre avvicinarsi (…) Oh, l’ho seguito da vicino Ho cercato di resistere e di essere coraggioso Ma non potevo nascondere il mio dolore Quando l’hanno messa nella tomba (…) Sono tornato a casa, la mia casa era solitaria aveva perso mia madre, lei se n’era andata Tutti i miei fratelli, le mie sorelle piangono Che casa così triste e solitaria (…) Il cerchio non sarà interrotto Di lì a poco, Signore, a poco a poco C’è una casa migliore che aspetta Nel cielo, Signore, nel cielo”). Un canto tristissimo, ma allo stesso tempo così popolare per gli americani (e anche per gli irlandesi che condividono radici comuni) un po’ come se Ligabue e Vasco Rossi avessero mai duettato insieme, e avessero eseguito un canto degli alpini, da trascendere il significato stesso. Ci facciamo sempre tanti film sui nostri artisti preferiti, ma ci sono anche e quasi sempre scelte di comodità in queste situazioni improvvisate: facciamo un pezzo che sappiamo a memoria noi e il pubblico, così visto che non lo avranno neanche provato, per far prima.
Eppure c’è qualcosa in quella canzone, in quello sguardo fra due uomini anziani immortalato in una fotografia presa dal pubblico, che trascende. Perché in fondo è sì un canto funebre, ma anche un canto di speranza: “Abbiamo cantato le canzoni dell’infanzia Inni di fede che ci hanno reso forti Quelli che mamma Maybelle ci ha insegnato Ascolta gli angeli cantare insieme”. Il cerchio che ci ha uniti, il legame, tra madre e figli, tra canti lassù sul palco e noi qua sotto, non si interromperà mai. Questo era probabilmente il messaggio, la preghiera, l’addio.
Quando avevo 13 anni e compravo i miei primi dischi (Bob Dylan e Neil Young ovviamente) neanche nel mio sogno più folle avrei mai pensato che a 57 anni li avrei visti in giro da qualche parte nel mondo a esibirsi ancora. Adesso che siamo tutti più vecchi (“Vecchio guarda alla mia vita, 24 anni e tanti altri ancora, vecchio, guarda la mia vita, sono come eri tu”) il cerchio non si è mai interrotto e mai lo sarà.
Sappiamo tutti che se c’è una magia, un trucco, un dono immenso nella musica rock è che ci fa oltrepassare il concetto stesso del tempo. E allora in quello sguardo scambiato tra i due, c’erano due ragazzi di vent’anni che discutono, va bene se facciamo questa canzone o no? Il cerchio non verrà interrotto mai, proseguirà anche in cielo, lo canteranno i figli die nostri figli se mai questo mondo balordo sopravviverà a se stesso, anche se quello di Kilkenny potrebbe essere stato l’ultimo evento di una storia che sta per finire. Perché alla fine, “guarda come passa il tempo, alla fine sono solo, rotolando verso casa da te”. Vecchio, guarda la mia vita, sono come eri tu. Il cerchio non si è spezzato.



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