C’è una Patti Smith emozionantissima (peraltro a un paio di mesi prima della pubblicazione del suo disco d’esordio, Horses) che sembra una ragazzina intimidita all’esame di maturità, appiccicata al muro del Gerde’s Folk City mentre improvvisa versi senza senso, si inceppa, poi comincia a battere con le mani un tempo rock e sul palco sale Eric Andersen che cerca di andarle dietro con la chitarra acustica.



C’è Patti Smith seduta sulle scale del Gerde’s che dice a Dylan quanto fosse stata innamorata di lui da ragazzina biascicando parole emozionate, mentre Dylan annuisce e si avvicina sempre di più a lei tentando di infilarsi nei suoi capelli.

C’è Allen Ginsberg che dedica una poesia d’amore a Dylan confessando davanti a dozzine di persone tra cui Roger McGuinn la sua cotta per lui.



C’è Joni Mitchell, bellissima più che mai, che non capisce come mai sia finita lì e insegna a McGuinn Dylan una sua nuova stupenda canzone, Coyote, scritta proprio in quei giorni che parla, dice lei, di quel tour, a casa di Gordon Lightfoot. Si incazza giustamente con il giornalista Larry Sloman che le fa la classifica die suoi cantanti uomini preferiti e lei che risponde “perché io non sono degna di stare tra Dylan e Leonard Cohen?”.

Ci sono personaggi inventati che dicono mezze verità, tra cui Sharon Stone, così finta che fa sbellicare dal ridere.

Ci sono “easter eggs”, dicono i produttori del film, da scoprire qua e là (un easter egg in italiano, letteralmente, uovo di Pasqua in informatica è un contenuto, di solito di natura faceta o bizzarra e innocuo, che i progettisti o gli sviluppatori di un prodotto, specialmente software, nascondono nel prodotto stesso. L’espressione rievoca la caccia all’Uovo di Pasqua tradizionalmente svolte in alcuni paesi nel periodo pasquale. A parte quelli più evidenti, a noi piace ricordare la somiglianza delle parole del giornalista Larry Sloman, inviato di Rolling Stone al tour, quando racconta di come il giornale gli chiedeva gossip e basta, con l’incontro tra il giornalista (Jeff Bridges) di Masked and Anonymous e il suo direttore che gli chiede lo stesso.



Come ha osservato argutamente il giornalista Alessio Brunialti Griffani “all’inizio del film viene mostrato l’Escamotage d’une dame chez Robert-Houdin di Georges Méliès (uscito nel 1896), in America abitualmente tradotto come “The vanishing lady”. C’è chi lo ha inteso come una strizzata d’occhio, come ad avvisare «tutto ciò che vedrete potrebbe essere “some dirty trick”», come Orson all’inizio di F for Fake, ma per me la verità è un’altra, e si capisce solo alla fine del film. In 2 ore e 22 non c’è nessun accenno, nessuna menzione, nessuna immagine, nessuna foto, di… Sara Dylan, che però in tour c’era eccome visto che nel frattanto si stava girando Renaldo & Clara, dove la ex signora Zimmerman interpretava il ruolo di (metà) titolo. La signora scomparsa è Sara. Anche perché la Vanishing lady di Meliès è la sua signora, Jeanne d’Alcy”. Vabbè, nel 2019 siamo ancora qui a discutere e a trovare misteri e verità su quello che fa Bob Dylan: tutto ciò è semplicemente stupendo.

Sara Dylan non c’è ovviamente: i due al tempo del divorzio (1977) hanno stretto un patto di acciaio del valore di milioni di dollari: nessuno avrebbe parlato dell’altro in pubblico per il resto della vita, E’ così è stato fino a oggi.

E c’è Joan Baez che gliele canta: “Ti sei sposato tu per primo e senza neanche dirmelo”. Lui tace, coda fra le gambe.

C’è tanta musica straordinaria, anche se spesso le canzoni sono tagliate o gli intervistati ci parlano sopra, stupende le scene mentre Dylan e accompagnatori provano in studio.

No, non è il documento definitivo sulla Rolling Thunder Revue che aspettavamo da una vita, è piuttosto il seguito del fantomatico Renaldo & Clara, il film girato dallo stesso Dylan durante quel tour, quattro ore di durata e una sonora stroncatura di critica e pubblico ai tempi dell’uscita (1978) tanto che, nello stile vendicativo di Dylan, possiamo scordarci esca mai in dvd o torni nelle sale cinematografiche.

Scorsese e Dylan hanno ricreato la stessa atmosfera sconclusionata, onirica, metaforica, sconnessa. Anche qui, come lì, “io è un altro”. Non sappiamo chi è chi veramente e cosa è cosa. Come quando Dylan dice: e chi se la ricorda la Rolling Thunder Revue? Non ero manco nato. Quando, dopo i titoli di cosa, scorrono le date di tutti i concerti che Dylan ha tenuto da allora a oggi, migliaia, però gli crediamo. Una mole immensa di performance e vita on the road, da non sapere neanche in che città ti stai svegliando oggi e in che nazione ti trovi.

E’ ovvio che, conoscendo Dylan, mistificatore di ogni verità, non potevamo aspettarci una celebrazione come fanno tutti sulle loro avventure musicali. Dovevamo aspettarci l’ennesimo sberleffo del jokerman e così è stato. Altro che essersi dimenticato della Rolling Thunder Revue. Nel concerto finale, quello al Madison Square Garden inspiegabilmente non compreso nel cofanetto di 14 cd visto che gira da anni in bootleg di buona qualità, Dylan salutava il pubblico dicendo: “We are the Rolling Thunder Revue and we will be back”. Non sarebbe successo, ma da allora Dylan non è più sceso da un arcoscenico, anche oggi che ha quasi 80 anni. “Touring is in my blood”, disse in una intervista di quei tempi. Il re degli zingari, one more cup of coffee, è sempre in giro, come “un tuono che rotola”.

E alla fine cd’è anche George B. Shaw, o almeno una parafrasi che Dylan fa sua: “Life isn’t about finding yourself. Life is about creating yourself” che diventa “life isn’t about finding anything, life is about creating yourself”. Lui l’ha fatto per tutta la vita, noi ce ne torniamo a casa col capo chino a creare parodie fallimentari di noi stessi.