In una intervista degli anni 70, un giornalista chiese a Bob Dylan come erano nate canzoni come Mr. Tambourine Man, Gates of Eden, insomma i classici del suo repertorio che avevano fatto di lui più che “la voce di una generazione”, “la voce” della musica rock (“Bob Dylan indica la strada”, commentavano i Beatles, il gruppo più popolare del pianeta). “Non ne ho la più pallida idea” rispose il cantautore. E alla domanda se avrebbe potuto scrivere adesso canzoni dello stesso livello, rispondeva “assolutamente no, non ho idea di come mi venissero canzoni di quel tipo, forse in uno stato di trance”.



Intervistato dal New York Times per l’uscita di Rough and Rowdy Ways, Dylan dice parole che suonano simili a quelle citate poc’anzi, quando l’intervistatore gli chiede del brano I Contain Multitudes: “È il tipo di cosa in cui accumuli versi come flussi di coscienza e poi li lasci in pace e torni a tirare fuori cosa è emerso. In quella particolare canzone, gli ultimi versi sono arrivati ​​per primi. Ecco dove la canzone andava sempre a finire. Ovviamente, il catalizzatore per la canzone è il titolo. È uno di quelli in cui lo scrivi per istinto. Un po’ in uno stato di trance. La maggior parte delle mie canzoni recenti sono così. I testi sono veri, tangibili, non sono metafore. Le canzoni sembrano conoscersi e sanno che posso cantarle, vocalmente e ritmicamente. In un certo senso si scrivono e contano su di me per cantarle”.



Parole che dicono moltissimo di chi sia e come componga il Dylan del Terzo Millennio. E’ come il lavoro onirico costituito da un’interazione tra Es, Io e SuperIo, il cui risultato finale è il “sogno manifesto”. A series of dreams, no? Altro che “amore e furto”.

Probabilmente con questo suo nuovo disco, Dylan è arrivato a scrivere i suoi testi più belli da decenni, a livello di quelli degli anni 60, di dischi come Highway 61 Revisited o Blonde on Blonde. No, non sono simili, hanno un altro approccio ma sono ricchissimi di contenuti, messaggi, metafore, segni e profezie. Un brano come Murder Must Foul potrebbe essere una Desolation Row che va a cozzare con It’s Alright Ma (I’m Only Bleeding).



C’è poi un filo rosso continuo che lega le canzoni che Dylan ha pubblicato da Love and Theft (2001) a oggi, passando per il Great American Songbook che adesso appare evidente. Quei cinque dischi che la gente in modo erroneo ha definito “alla Frank Sinatra” non sono più una sorta di divertimento (per lui) e di gran noia per il fan a binario unico che si aspetta sempre una nuova Like a Rolling Stone, ma sono parte integrante di questo percorso.

E’ un cammino all’inizio, con Love and Theft,  che diventa sempre più evidente, dall’America di Henry Timrod, poeta della Guerra di secessione, passando per i Rolling Stones, Frank Sinatra, JFK, Alice Keys, Walt Whitman, Al Pacino, Freud e Marx, Jimmie Rodgers, Gregory Corso e Jack Kerouac terminando nel punto più a sud degli Stati Uniti, dove vissero Ernest Hemingway e Tennessee Williams, Key West. E ancora: Martin Luther King Elvis, Giulio Cesare, Edgar A. Poe, Tom Waits. Dopo Key West, probabilmente, non c’è più niente: “Key West è il posto dove andare in cerca d’immortalità”.

Dall’inizio degli anni 60, Dylan racconta la storia americana come una forma moderna dell’Apocalisse, è il grande quadro michelangiolesco di Murder Must Foul, profezia inquietante dell’omicidio di George Floyd (“Una cosa orribile” ha detto al NYT al proposito, esattamente come l’omicidio di JFK), uno sguardo che ha sviluppato quando studiava articoli di giornali dei tempi della guerra civile nella Biblioteca pubblica di New York quando aveva vent’anni. “A quel tempo l’America fu crocifissa, morì e risuscitò”, scrive nelle sue memorie. “Non c’era nulla di artificiale in questo. Questa fruttuosa verità doveva costituire la struttura onnicomprensiva dei miei testi futuri”. Questo vale per A Hard Rain’s A-Gonna Fall pubblicata nel 1963 e per Murder Most Foul del 2020.

Spiace per chi non ha gradito i dischi malamente definiti “di Frank Sinatra”, che erano invece dischi dedicati al Great American Songbook e a Tin Pan Alley, ma musicalmente c’è moltissimo di quei lavori nel nuovo lavoro. L’approccio jazzato, notturno, appena accennato della gran parte dei brani, a parte un paio di blues suonati alla sua maniera e una splendida ballata folk, Mother of Muses, che paga più di un debito al classico della musica nordamericana Shenandoah, che Dylan già incise ai tempi di Down in the Grove (1988). Ed è in questo brano che il cantante si rivolge personalmente alla madre delle Muse, la dea greca della memoria Mnemosyne, e le chiede di cantare per lui sulle montagne, il mare profondo e scuro, i laghi e le foreste, d’onore, Destino, fama, amore ed eroi da cantare, dai generali della guerra civile e mondiale, “che hanno aperto la strada a Presley per cantare / che hanno preso la strada per Martin Luther King”.

Per Black Rider, che non ha a che vedere con l’omonimo brano di Tom Waits, ma ne ricorda le inquietanti oscurità, siamo addirittura dalle parti del Mediterraneo: mandolino, chitarre spagnoleggianti. Elvis avrebbe potuto farla sua. Freud e Marx si incontrano all’inferno e attendono il giudizio finale nella taverna del cavaliere nero in Armageddon Street. Il protagonista del brano si rifiuta di battersi con il cavaliere nero, dice, magari un’altra volta: che sia la morte?

C’è un gran cast di musicisti in questo  disco, benché Dylan, come sempre, lasci loro poco spazio, eccetto che nel finale rovente di Crossing the Rubicon  così come nella briosa e spumeggiante Goodbye Jimmy Reed (che è la Down in Virginia del musicista di colore, anche citata nel finale) dove si incrociano le chitarre di Charlie Sexton e Bob Britt: “Give me the old time religion”, chiede il protagonista all’intero popolo afroamericano. Il nuovo arrivato nella live band, il batterista Matt Chamberlain, che era parte dei Pearl Jam al loro esordio, porta finalmente un po’ di vigore nella sezione ritmica. Poi Fiona Apple, che nell’anteprima che ci hanno fatto ascoltare non sappiamo dove suoni, ma conoscendo le sue capacità di pianista jazz potrebbe essere lei a colorare Murder Must Foul, ma siccome nel disco torna il tastierista di Street Legal (1978), Alan Pasqua, pensiamo sia piuttosto lui. Oppure un altro fantastico tastierista, presente anche lui, Benmont Tench, ex Heartbreakers di Tom Petty.

Nella misteriosa e paurosa My Own Version Of You una sorta di spoken word su base ritmica swingante, diventa una specie di Frankenstein che vaga per i monasteri e gli obitori per trovare le parti del corpo necessarie con cui vuole rattoppare il corpo della propria amata. Sembra orribile, ma è amore: non voglio, non posso perderla, in qualche modo devo riaverti, nel modo in cui voglio io. Non è quello che facciamo tutti noi, con la persona che diciamo di amare? La trasformiamo nella “propria versione”, per possederla. L’amore può essere orribile. Ma poco dopo ha bisogno lui stesso di una nuova identità, e pensa di recuperare le maschere mortuarie di Al Pacino e Marlon Brando. E’ l’America che cerca pezzi di se stessa.

Poi c’è la meravigliosa I’ve Made up my Mind to Give Myself to You, dove un coro in crescendo colora il retroscena, quasi un’Opera. Anche qui Elvis o Sinatra avrebbero potuto farle loro.

Mother of Muses è un pezzo incantevole, solo due chitarre acustiche e tocchi di violoncello per una antichissima ballata folk sussurrata da un Dylan in stato di grazia.  Solo Rubicon Blues lascia perplessi, un blues spigoloso con cambi di tempo e un’aria di confusione.

Il primo disco (perché Dylan ragiona ancora come ai tempi del vinile, perché Murder Must Foul poteva benissimo entrare in un solo cd) termina ancora con una dolcissima nenia, Key West (Philosepher Pirate). Il pirata filosofo, perché l’attuale splendida località turistica era nei secoli scorsi una delle più importanti basi della pirateria dei Caraibi. Dylan non è Capitan Sparrow, ma ancora una volta un fantasma del passato che viene a visitarci: “Sono nato dalla parte sbagliata, come Ginsberg, Corso e Kerouac”. Il pezzo sembra suonare come se i musicisti di The Band fossero ancora vivi, l’attacco è quasi quello di When I Paint My Masterpiece nella loro versione che, dice Dylan, ama oggi sempre di più: vecchi anche loro, ma con quell’inconfondibile sound aperto dalla fisarmonica e le chitarre acustiche e il passo antico. E’ quasi una sorta di tributo agli amici scomparsi che insieme a lui cambiarono la storia della musica rock. “Importa solo che una canzone ti commuova”, ha detto nel suo discorso sul Premio Nobel. “Non devi sapere cosa significa. Ho scritto ogni genere di cose nelle mie canzoni. E non sono preoccupato di cosa significhi tutto ciò “. Key West è una specie di bilancio condensato della cultura occidentale, intercettato su un canale pirata. Dylan riunisce la storia dell’America e quella della sua vita in un mitico luogo intermedio nel sud della Florida, ricco di ispirazione e misterioso: è come se il cantautore vedesse il canone della cultura occidentale minacciato dalla scomparsa e quindi fa tutto il possibile per mantenerlo.

È il suo ultimo disco? si chiedono in molti. È sicuramente il suo primo da vincitore del premio Nobel.