Benvenuti nel Regno delle Ombre, popolato da fantasmi, dove il re è lui, Mr. Bojangles, l’uomo che balla e salta (“I’m a song and dance man” disse Bob Dylan quando aveva solo 25 anni), che intrattiene con una voce recuperata magnificamente grazie a un anno e mezzo di pausa dai concerti causa pandemia. Ah, avesse interrotto più spesso il suo Neverending tour, invece di fare 100, 150 concerti all’anno da 30 anni a questa parte, spesso svogliato, annoiato, oltre che a salvaguardare la voce avrebbe recuperato anche l’entusiasmo che sprigiona in questo evento prodotto dal canale online Veeps (disponibile per 48 ore al prezzo di 28 dollari e qualche centesimo).
Siamo in un juke joint da qualche parte nel Mississippi, dove magari si era esibito Robert Johnson quella notte che fu avvelenato e ucciso. Il pubblico sono giovani donne di colore, un messicano, balordi della malavita, che fumano in continuazione (nella chat messa a disposizione a fianco del video molti americani nell’ormai loro insopportabile e fottuto politically correct si lamentano del troppo fumo che dà il cattivo esempio) e bevono. A un certo punto sulle note di una rockata Watching the river flow alcune coppie si mettono a ballare. E’ un sabato sera dopo una settimana a spezzarsi la schiena, per questo pubblico della classe operaia. E’ un tipo di locale dove Dylan preferirebbe suonare rispetto alle arene senz’anima in cui si esibisce di solito.
The early songs of Bob Dylan annuncia il programma, ma non c’è traccia di alcuna Blowin’ in the wind, The times they are a-changin’, Mr. Tambourine man e tantomeno Like a rolling stone. Il repertorio è blues graffiante, in altri momenti delicato jazz da crooner, l’esperienza con i dischi di Frank Sinatra ha lasciato un segno indelebile nel cantante. Ma c’è anche una incredibile, stupefacente, country Forever young completamente riscritta nella melodia che dà ancora oggi la misura delle capacità stratosferiche del cantautore di trovare sempre nuove vie espressive. Così come le commoventi What was it you wanted seduto su uno sgabello e la conclusiva It’s all over now baby blue.
What Was it You Wanted, uno dei tre pezzi non appartenenti agli anni 60 dell’intera scaletta, è sinistra e brillantemente diabolica. Forever Young, una canzone trasformata tante volte in diverse versioni rinasce con la sincerità dell’età e dell’esperienza. Lui stringe i pugni con forza declamatoria mentre la canta, in una ideale dedica alle nuove generazioni, affinché prendano in mano un mondo che sta andando in malora.
L’ambientazione è in bianco e nero, anni 40, lui per la prima volta dopo vent’anni a volte torna a imbracciare una chitarra acustica, niente pianoforte o tastiere (manca anche un batterista, l’accompagnamento è da blues band pre-seconda guerra mondiale, chitarra elettrica, basso acustico, chitarra alla Django Reinhardt e fisarmonica, si gioca tra il blues e le atmosfere messicane del border).
Nell’epoca storica della pandemia, i musicisti che lo accompagnano, qui per la prima volta (Alex Burke, Shahzad Ismaily, Janie Cowen, Buck Meek e Joshua Crumbly) hanno il volto coperto dall’usuale mascherina anti Covid (“Masked and anounymous” ovviamente). L’effetto è spettrale e ammonitorio.
Il Re delle ombre pesca abbondantemente da Highway 61: una meravigliosa e sofferta Queen Jane Approximately, una ballata tex – mex come Just like Tom Thumb’s Blues, una rallentata e minimale Tombstone Blues, spettrale e spoken word, come se provenisse, come da titolo, dal profondo di una tomba, e da Blonde on Blonde, una magnifica e rockabilly Most likely you go your way e un blues sofferto come Pledging my time.
E se l’apertura è dedicata a una folkeggiante e intensa When I paint my masterpiece, c’è posto ancora per il rockabilly pre rock n roll di To be alone with you completamente riscritta nel testo (“Did I kill somebody? Did I escape the law?”) e una oscura e sulfurea The wicked messenger.
Mentre il countdown procedeva spedito in attesa dell’inizio del concerto, con una chat dove appariva gente da ogni angolo del mondo, dall’Uruguay al Sud Africa, dalla Cina alla California, si sentiva la stessa attesa che si prova prima di un concerto anche se eravamo tutti bloccati a casa. Solo questo è valso il prezzo di ingresso in questo juke joint che nel tipico spirito iconoclasta e spiazzante di Dylan nei titoli di coda viene definito The Bon Bon Club di Marsiglia (!). Le canzoni sono state eseguite in maniera spettacolare, poco importa fossero state incise in studio e replicate fingendo di suonare dal vivo, l’effetto è stato riuscitissimo, restaurate e rivitalizzate con un Dylan al top del suo gioco. Ogni parola suonava vera. Il tempismo era perfetto così il fraseggio. Nudo e armato con e senza chitarra, con e senza armonica. Passione. Dylan è ancora impegnato a nascere. Brucia ancora. Keeping on keeping on.
Ci sono così pochi filmati di performance di alta qualità degli ultimi decenni e questo lo è sicuramente, grazie alla bravissima regista israeliana Alma Har’el che a un certo punto piazza due donne, una di colore e una massiccia e grassottella, niente sex symbol, ma gente autentica, a fianco dell’artista, immobili a fissare in telecamera, due fantasmi giunti chissà da dove, con una di loro che gli spolvera la giacca mentre canta. Shadow Kingdom è un momento inestimabile di un artista vitale a 80 anni come quando ne aveva 20. Le canzoni, ridotte musicalmente al minimo, diventano ancora più forti.
Is it all over now, baby blue? Nessuno lo sa. Era la canzone che chiuse la contestata performance a Newport 65, l’addio al mondo del folk per lanciarsi sulla pista del rock’n’roll. Il mistero, qua nel Regno delle ombre, permane e ci pone domande. NOn possiamo neanche immaginare un mondo senza Bob Dylan. Il juke joint dei fantasmi sta per chiudere, le ombre tornano a riposare. Fino a quando saranno chiamate fuori un’altra volta, nei nostri sogni e nei nostri incubi. Perché lui ci ha segnati per sempre.
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