Londra, 27 maggio 1966. Bob Dylan e i suoi accompagnatori scendono dal palco della Royal Albert Hall, la sala da concerti più prestigiosa del Regno Unito. Hanno terminato un massacrante tour di oltre 40 date che li ha portati, dal 4 febbraio di quell’anno, attraverso gli Stati Uniti, le Hawaii, l’Australia fino all’Europa. Quasi ovunque sono stati fischiati e contestati: “Ci vogliono molti farmaci per mantenere questo ritmo. Un tour come questo mi ha quasi ucciso” dirà in seguito Bob Dylan. Morfina, anfetamina e pillole varie sono state la sua dieta per tutti questi mesi. Lui e i futuri musicisti di The Band che lo hanno accompagnato sono anche emotivamente distrutti dall’accoglienza ricevuta. Il pubblico, soprattutto quello inglese e francese, li ha sonoramente contestati quando, dopo un primo set in acustico, si presentavano sul palco con strumenti elettrici: “Traditori” è il commento più generoso. Tra il pubblico molti esponenti della nuova sinistra che considera la svolta elettrica di Dylan “pop music” e “bubblegum music”. Dove è finito il cantautore di protesta che stava diventando l’arma segreta del 68 ormai prossimo?
Nei successivi otto anni Bob Dylan non intraprenderà più nessun tour, salvo alcune singole eccezioni (20 gennaio 1968, Woody Guthrie Memorial Concert; 31 agosto 1969, Isola di Wight; 1 agosto 1971, Concerto per il Bangladesh; concerto di Capodanno 1971 di The Band). In ognuna di queste occasione, tranne il concerto per il Bangladesh, il cantautore è accompagnato dagli stessi musicisti del tour del 1966, che adesso si fanno chiamare The Band
È la sera del 3 gennaio 1974. Bob Dylan e The Band stanno salendo sul palcoscenico del Chicago Stadium. È l’evento inaugurale di un tour che segna il ritorno del musicista all’attività concertistica. In uscita, pochi giorni dopo, un nuovo disco, Planet Waves, il primo e unico (con le eccezioni delle registrazioni amatoriali cosiddette dei Basement Tapes) di Dylan con The Band. Alla notizia di questa serie di concerti, l’intera America è scossa da un brivido incontenibile. Le richieste di biglietti superano i 20 milioni, più del 7% dell’intera popolazione americana, battendo ogni record fino ad allora: 658mila biglietti venduti. Altrettanto impressionante la lista dei colleghi che accorre a questi concerti: Joni Mitchell, John Lennon, Ringo Starr, Cher, Miles Davis, Carlos Santana, Joan Baez, Neil Young fra gli altri. Nonostante dal 1966 Dylan avesse pubblicato dischi che si possono considerare minori rispetto a quelli pubblicati tra il 1963 e il 1966, il suo carisma e l’impatto sulla società non erano minimamente venuti meno.
Il ritiro dai concerti fece sì che le case discografiche si fossero disperatamente buttate alla ricerca del “nuovo Dylan”: Bruce Springsteen, John Prine e Elliott Murphy sono alcuni dei tanti “marchiati” con una identificazione che non corrisponde loro. Ma il vero e unico Bob Dylan sta per rimettersi in gioco. Non solo: il cantautore è accompagnato da quello che in quel periodo storico è considerato il più importante e significativo gruppo rock americano.
Come voler agganciarsi a un filo storico, i musicisti iniziano quel primo comcerto con Hero Blues (quella sera, sempre con l’intento di legarsi di nuovo ai suoi inizi, nel suo set acustico Dylan esegue anche Song to Woody), un vecchio blues che Dylan incise a inizio carriera rimato inedito su disco. Qualunque brano fosse stato, l’irruenza e la potenza con cui lo affrontano l’avrebbero reso irriconoscibile. Tra il cantautore e quei musicisti riaccade la magia che li ha sempre uniti, che li ha resi unici e che li ha fatti sempre produrre una musica carica di segnali, presagi, memorie, fantasmi di una repubblica invisibile. Ma soprattutto il rock’n’roll più energico ed eccitante che si fosse mai sentito. Sebbene la voce di Dylan in questo primo concerto e in buona metà del tour sia molto diversa da quella che si può ascoltare sul live ufficiale tratto da questo tour, Before the flood, cioè meno sguaiata, meno forzata, meno urlante, quello che emerge è una affermazione di intenti: siamo tornati e nessuno uscirà vivo di qui.
The Band era tornata a suonare con lo spirito selvaggio di quando, nei primi anni 60, erano solo una bar band: uno spirito anarchico, vizioso, fuori controllo dove ognuno assumeva la sua parte di rischio e la portava a termine senza sconti.
Come avrebbe detto lo scrittore americano Greil Marcus, “insieme Dylan e The Band andavano lisci con un rumore che faceva sembrare i concerti dei Rolling Stones dell’epoca ordinari come nei fatti erano, e la tempesta sembrava un paradosso emozionale che spesso andava oltre le parole dello stesso Dylan. Ruggendo con risentimento e felicità, cavalcando il potentissimo beat di Levon Helm, fondendo tutte le parti in un momento collettivo, quella musica spinse il rock’n’roll ai suoi limiti estremi (…) La musica, era dura e rabbiosa, una ricompensa per i fischi del 1965 e 66 (…) Garth Hudson ne era il fulcro (…) La musica era proposta con un particolare spirito americano: forte, crudo, incivilizzato. Fu un attacco vecchio stile, campagnolo e metropolitano”.
Quella sera, verso la fine del concerto, decine di migliaia di accendini vengono accessi all’unisono. Dylan si spaventa. Racconterà: “Pensavo che i concerti del 1966 erano stati una guerra, ma qui si stava andando oltre: questi volevano darci fuoco”. Era invece uno spontaneo gesto di apprezzamento che sarebbe diventato usuale ai concerti rock. Robbie Robertson commentò: “Nel 1966 eravamo convinti di suonare ottima musica, ma il pubblico non apprezzava. Nel 1974 tornammo e vincemmo quella battaglia cominciata allora, conquistando tutti”.
Nei primi concerti del tour Dylan proponeva alcuni brani del nuovo disco, come Tough Mama, Wedding song, Something there is about you, Forever Young e anche un pezzo rimasto fuori del disco, Nobody ‘cept you. Ben presto davanti al cataclisma che i vecchi pezzi suscitavano nel pubblico il cantautore si arrese alle richieste del pubblico. Sebbene i concerti divennero dei greatest hits, Dylan inaugurò allora la moda di stravolgere gli arrangiamenti dei brani: l’ode all’amore casalingo di Lay lady lady divenne un assalto rock, mentre la litania funebre di Knockin’ on heaven’s door era adesso un attacco al paradiso.
I concerti erano suddivisi in un primo set di Dylan con The Band; un set di The Band; un set acustico di Dylan da solo; un altro set di The Band e poi un finale tutti insieme.
Dal 15 gennaio i concerti ebbero una struttura precisa: si aprivano e si chiudevano con lo stesso brano, tratto da Blonde on blonde, in cui Dylan aveva lanciato una sorta di maledizione a causa della divisione ormai decisa tra lui e il suo vecchio pubblico folk: “Il tempo dirà chi è caduto e chi è stato lasciato indietro quando voi andrete per la vostra strada e io per la mia”. Con una incendiaria e rabbiosa Most likely you go your way Dylan era venuto a dire a tutti chi aveva avuto ragione. Gli esponenti della sinistra radicale folk erano scomparsi, lui invece era ancora lì.
Nonostante la scaletta eseguita, il tour dimostrò che quelle canzoni non erano solo nostalgia, ma erano perfettamente calate nel tempo presente. L’America di quel periodo era infatti travolta dal peggior scandalo politico della sua storia, il cosiddetto scandalo Watergate. Quel caso portò alla luce uno schema di spionaggio e intercettazioni dell’amministrazione Nixon: durante la campagna elettorale del 1972 cinque persone furono scoperte mentre cercavano d’irrompere nella sede del partito democratico, a Washington. L’8 agosto 1974 Richard Nixon fu costretto ad annunciare le sue dimissioni. Mentre Dylan era in tour, lo scandalo era l’argomento del giorno in America. Quando ogni sera eseguiva da solo It’s alright ma I’m only bleeding, il verso composto 9 anni prima (“Anche il presidente degli Stati Uniti a volte deve rimanere nudo”) sembrava il compimento di una profezia: il pubblico, come si può sentire dalle registrazioni, scoppiava in urla e applausi cogliendone l’attualità.
A metà tour poi Dylan si convinse a inserire in scaletta anche Blowin’ in the Wind e ogni pezzo del puzzle andò al suo posto: sì, Dylan era tornato a consolare una generazione di orfani.
A Inglewood, verso la fine del tour, nell’area metropolitana di Los Angeles, città nella quale Dylan e la moglie si erano trasferiti da poco, il cantautore venne raggiunto dalla moglie per gli ultimi tre concerti. Nel secondo di questi, il 14 febbraio, giorno di San Valentino, Dylan pensò di dedicare a Sara la sua canzone preferita, accompagnato dal fisarmonicista di The Band, Garth Hudson: Mr. Tambourine Man. È una delle gemme che aspettiamo di sentire con ansia nel cofanetto in uscita il 20 settembre.
Benché nel corso della sua carriera Dylan abbia sempre suonato con musicisti straordinari (gli Heartbreakers di Tom Patty su tutti) il feeling e l’armonia che lui e The Band riuscivano a sprigionare sul palco non sarebbe mai più stato raggiunto. Insieme avevano condiviso l’incredibile apocalisse del tour del 66, insieme avevano assaporato la riscoperta delle radici della musica americana a Woodstock, insieme potevano fare qualunque cosa. Se ci fate attenzione, vedrete che le poche foto in cui Bob Dylan è ritratto di buon umore, sorridente e allegro sono quelle di quando si trova con quei musicisti.
Nel 1974, a causa della sua lunga assenza dai palcoscenici, Bob Dylan era stato sorpassato da star più giovani come i Led Zeppelin e Neil Young. Ma l’urgenza e la drammaticità che questi musicisti infusero nel corso di quel tour, mostra come avevano saputo riconquistare dopo otto anni l’America: ogni verso era una pugnalata, incriminazione dopo incriminazione. La volta successiva che un pubblico avrebbe sentito tanto veleno in una canzone, sarebbe successo con i Clash.
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