30 ottobre 1975, War Memorial Auditorium di Plymouth, Massachusetts. E’ qui che nel 1620 i Padri Pellegrini fuggiti dalle persecuzioni religiose in Inghilterra, fondano la loro prima colonia. In un certo senso, è l’atto di fondazione dell’America stessa. L’anno dopo si sarebbe celebrato il secondo centenario dell’indipendenza americana, e Dylan vuole celebrarlo a suo modo, con due anni di concerti senza fine. E’ la vigilia di Halloween e sta per andare in scena il primo di una nuova serie di concerti di Bob Dylan. Qualcosa di apparentemente normale, perché dopo otto anni di assenza, Dylan è tornato finalmente a cantare dal vivo con il comeback tour del 1974. Ma questa volta è diverso. Ciò che sta per accadere non si era mai visto prima. Insieme a lui c’è un ottimo gruppo di musicisti, formato dal bassista Rob Stoner, per dare seguito all’idea di Bob, che aveva chiesto a Ramblin’ Jack Elliott, incontrato una sera all’Other End Club di New York, se aveva voglia di andare in giro con lui a “cantare per la gente”. Vengono così reclutati T-Bone Burnett, Mick Ronson (ex chitarrista di David Bowie), Steven Soles, Howard Wyeth, Luther Rix, la violinista Scarlet Rivera ed il giovane David Mansfield, virtuoso suonatore di dobro e mandolino. A cantare con Dylan, inoltre, vengono invitati lo stesso Elliott, Bobby Neuwirth, Ronee Blakley, Joan Baez, Joni Mitchell e Roger McGuinn. E’ una nuova band, denominata Guam, un incredibile carrozzone, sul quale sono pronti a saltare anche i poeti beat Peter Orlovsky ed Allen Ginsberg. Ed è al Seacrest Motel di North Falmouth che, il 27 ottobre, euforico durante le prove, Ginsberg urla una frase che si rivelerà una vera profezia: “ci siamo ancora una volta imbarcati per un viaggio alla conquista dell’America!”.
E’ iniziata l’avventura della Rolling Thunder Revue, una delle tournée più belle di tutta la carriera di Dylan. “Mi era capitato di alzare gli occhi al cielo e di sentire un boato – aveva dichiarato Bob – poi bum, bum, bum, un tuono che si ripercuoteva da ovest a est. E pensai che il nome doveva essere quello: Rolling Thunder”. Un tuono che, in effetti, avrebbe poi davvero attraversato l’America, con il tour che si sarebbe protratto anche nel 1976. Ma quella prima serie di concerti del ’75, nel nord est degli Stati Uniti, fu davvero speciale.
L’aria intorno ai musicisti era elettrica ed ogni istante colmo d’imprevedibilità e di passione. I concerti duravano oltre quattro ore e spesso ne venivano fatti due nel corso della stessa giornata, al pomeriggio ed alla sera. L’idea iniziale era quella di uno show itinerante, da organizzare senza clamore, ma ci volle poco tempo perché la voce cominciasse a spargersi e diventasse necessario organizzare le date in luoghi sempre più grandi. Ogni concerto era diviso in due parti: il primo set iniziava con una quindicina di canzoni eseguite dalla band, poi entrava in scena Dylan, con 5-6 canzoni, sempre supportato dalla band; il secondo set vedeva Dylan e Joan Baez insieme, per cinque canzoni, seguite da una decina di canzoni dei Guam insieme a Baez e Roger McGuinn, per terminare con 1-3 canzoni di Dylan da solo ed altre 5-6 supportate dalla band a chiudere lo show, senza bis. Molto materiale audio venne registrato ed anche la macchina da presa si dette da fare, immortalando numerosi momenti al di fuori degli show, alcuni bizzarri, come quello, celebre, di Dylan e Ginsberg insieme davanti alla tomba di Kerouac, l’incontro con i nativi americani o la lettura dei tarocchi da parte di una maga incontrata lungo il tour. La maggior parte di quelle scene finì sul film Renaldo And Clara, ma altro materiale è stato utilizzato ora da Martin Scorsese, per il suo docu-film la cui uscita è attesa per il prossimo 12 giugno. Nel frattempo la Columbia non ha perso l’occasione per pubblicare The 1975 Live Recordings, documentazione audio molto più ampia rispetto al precedente “Bob Dylan Live 1975”.
Scrivere di questo periodo della carriera di Dylan è facile e difficile allo stesso tempo. Facile perché basterebbe pescare dalle numerose cose già pubblicate, a partire dal Rolling Thunder Logbook, cronaca di quei giorni scritta “on the road” da Sam Shepard, o dal libro di Larry “Ratso” Sloman; difficile perché arduo appare il pretendere di raccontare cose che Dylan stesso, forse, fatica a comprendere ancora adesso, momenti di particolare illuminazione artistica, di rinnovato desiderio di impegno politico – fu di quei giorni la battaglia per Rubin Carter, il pugile nero ingiustamente incarcerato per omicidio, celebrato nella canzone Hurricane e sostenuto proprio nel concerto finale di quel tour, al Madison Square Garden di New York – di liberazione dalla fobia della gente, dai “guardiani della mente” che lo accompagnavano fin dagli anni sessanta: “raramente Dylan era apparso più cordiale, in scena e fuori”, scrive Robert Shelton nella sua biografia, ed era davvero così. Ognuno, poi, potrebbe raccontare una sua storia personale, intorno a quel periodo e a quelle canzoni. Per il sottoscritto, il 1976 fu l’anno dell’innamoramento, l’incontro con Dylan attraverso Desire, l’album inciso prima che l’avventura della Rolling Thunder Revue avesse inizio ed edito poi l’anno dopo. E il 1975 fu l’anno da scoprire poi a ritroso, attraverso libri ed articoli raccolti ovunque e l’ascolto di quei nastri fruscianti che, negli anni, cominciarono a circolare tra gli appassionati, circondando quell’amore iniziale con i piccoli gesti di ogni giorno, quelli che, alla fine, portano all’inossidabile fedeltà che solo il tempo sa costruire rendendo un amore duraturo.
Il cofanetto della Columbia, box-set di 14 cd, contenente cinque concerti, sedute di prove del tour, ed un disco di performances più rare, accarezza quei ricordi e li riporta alla luce, rivestendoli con abiti nuovi e splendenti. “Se state leggendo queste note – scrivono i produttori nel libretto allegato – ricco di splendide fotografie inedite – avrete già aperto la confezione ed ormai è troppo tardi per restituirla. Lasciateci allora raccontare come questi brani sono stati messi insieme”. “In occasione dell’uscita del film di Scorsese – proseguono – abbiamo avuto la possibilità di ascoltare di nuovo tutti quei nastri. E si trattava di performance così meravigliose, che abbiamo deciso di pubblicare un cofanetto che includesse tutti e cinque i concerti che furono registrati in maniera professionale”. Sono le note introduttive ad un viaggio che risulterà affascinante non solo per chi ha già conosciuto quei luoghi, ma anche per chi dovesse scendere per la prima volta in strada. Perché qui c’è tutta la potenza di Dylan, in una delle sue fasi più creative ed espressive, nelle splendide esecuzioni di alcuni brani che sarebbero usciti poi su Desire – Romance in Durango, Isis, Oh Sister, Hurricane, One More Cup Of Coffee, la dolcissima Sara, dedicata alla moglie e che mai più sarebbe riuscito ad eseguire dal vivo all’indomani del divorzio – e nei classici quali It Ain’t Me babe, The Times They Are A-Changin’, Hard Rain, It Takes A Lot To Laugh, Just Like A Woman, Tangled Up In Blue, Blowin’ In The Wind, Knockin’ On Heaven’s Door. Scrive Clinton Heylin, nel suo Behind The Shades, che Dylan in quegli show “cantava con una precisione raramente mostrata in precedenza, schioccando ed allungando le parole perché potessero venir colte le sfumature di significato di ogni singolo verso”. Curiosamente, in ogni show, Bob usciva truccato con una maschera bianca che gli copriva interamente il viso. Racconta Scarlet Rivera che una sera un uomo dal pubblico gli gridò: “perché indossi quella maschera? Cosa significa?” E Bob divenne all’improvviso arrabbiato e scuro in viso. “Credo che la sua risposta fosse: “il significato sta nelle parole” – spiega la violinista dei Guam – Era arrabbiato perché voleva che egli venisse finalmente capito, compreso”.
“Non ho mai sentito Dylan esibirsi in modo così potente, sembrava un imperatore del suono”, disse alla fine Ginsberg. Perché non furono solo le parole delle canzoni, ma gli occhi stessi di Dylan, vere e proprie saette lanciate a destra e a manca, i gesti del corpo, il suono potente e selvaggio della band, a fare di ogni concerto di quel tour un momento drammatico e catartico. Da quel momento in poi, Dylan non avrebbe più trascorso un periodo lungo della sua carriera senza esibizioni dal vivo. Il suo neverending tour, in fondo, era ricominciato proprio in quel momento, in cui aveva capito che cantare su un palcoscenico era l’unico modo di lasciare che il suo sangue continuasse a scorrere nelle vene per non farlo morire. “Quando avrò novant’anni e mi vorrai vedere, mi troverai su di un palcoscenico da qualche parte”, ha dichiarato alcuni anni fa ed ora che di anni ne ha quasi ottanta, passa effettivamente ancora buona parte dell’anno davanti ad un microfono. Ma quei due mesi del 1975 rimangono un episodio folgorante e irripetibile: “ho lasciato la strada che ci vedevo doppio – ebbe a dire Bob, alla fine di quell’anno – ma di sicuro è stato un viaggio che valeva la pena”. Ed è per questo che adesso, anche ciascuno di noi non può perdere l’occasione di ripercorrerlo lungo un film ed una serie di straordinari cd. Perché, come scrive nelle note al disco Wesley Stace – autore di Cabinet Of Wonders, spettacolo di musica e letteratura andato in scena a New York per dieci anni – “ognuno fa esperienza della propria Rolling Thunder o del proprio Cabinet of Wonders, ma questo è stato il primo, l’ultimo e il migliore”.