Certo che anticipare ben tre canzoni da un disco che ne contiene dieci è un po’ come rovinare la sorpresa. La bellezza di un disco nuovo, almeno per noi che siamo cresciuti negli anni 70 quando non esisteva la Rete e la possibilità di mettere online anche la carriola di mia nonna in anticipo di due anni rendendo tutto a disposizione di tutti privando del gusto della novità che provavamo lanciandoci nei negozi di dischi il giorno in cui il disco usciva, poi correvamo a casa, toglievamo la busta e ci inchiodavamo davanti al giradischi per giorni sentendo e risentendo quel musica, adesso ce la rovina anche Bob Dylan. Vabbè, sono tempi strani. Il coronavirus ha costretto il cantautore americano per la prima volta in oltre trent’anni a interrompere il suo Never Ending Tour e qualcosa deve pure fare.
L’impressione poi che si ha finora, dopo aver ascoltato i primi due pezzi, Murder Moust Foul e I Contain Multitudes e adesso la nuovissima False Prophet, è che si tratti di brani provenienti da session diverse raccolte nel corso degli anni. I primi due suonano infatti come brani dalle registrazioni dei suoi ultimi tre dischi, quelli di cover dell’American Songbook, stessi arrangiamenti, stessi suoni, stesse melodie. False Prophet invece è una esplosione di suoni con tanto di sezione fiati come non usava più dai tempi di Slow Train Comin’ (1979), sul classico riff di blues, usato dallo stesso Dylan centinaia di volte, basti pensare a Early Roman Kings dal suo ultimo disco di inediti, Tempest (2012). E’ un sound fresco e pimpante, con belle chitarre e la solita voce spezzata e invecchiata di Bob Dylan che sputa sentenze.
Da sempre definito “un profeta” Bob Dylan mette in chiaro che al massimo lui è un “falso profeta”. Nel 1983 intitolò un brano Jokerman, il joker del mazzo di carte, il truffatore, autodefinendosi tale. Nel 2004 in una intervista nel corso del programma televisivo 60 minutes dichiarò che “non ho mai voluto essere un profeta o un salvatore. Magari Elvis lo era. Mi immaginavo di diventare come lui, ma un profeta? No”. Come scrive oggi Rolling Stone, nel 2007 in un libro di memorie l’ex papa Benedetto XVI scrisse di quando sconsigliò, nel 1997, a papa Giovanni Paolo II di invitare Bob Dylan al grande concerto eucaristico di Bologna: “C’era motivo di essere scettici e io ero e in qualche modo lo sono ancora, del fatto che fosse veramente giusto permettere a questo tipo di profeta di apparire”. Chi vede profeti dappertutto in realtà è colui che non ha fiducia neanche nella sua stessa fede religiosa. Il falso profeta appare nel libro dell’Apocalisse: “E il diavolo, che li sedusse, fu gettato nella pozza di fuoco e zolfo, dove sia la bestia che il falso profeta saranno tormentati giorno e notte nei secoli dei secoli.” Il testo della canzone oscilla tra la stanchezza esistenziale tipica dell’ultimo Dylan, avventure spericolate (a un certo punto si rivolge a due donne contemporaneamente, “Mary Lou” e “Miss Pearl”) e iverse allusioni spirituali, alla faccia di Ratzinger. Dylan infatti, per chi lo ha studiato seriamente, è profondamente criticano e non ha mai smesso, pur con versi metaforici, di cantare la sua fede. Annuisce a un pensiero Zen con una frase su “scalare una montagna di spade a piedi nudi”, cita la frase di Martin Luther King “nemico del conflitto”, dice a un “povero diavolo” di guardare una “città di Dio”, e termina la canzone cantando casualmente “Non ricordo quando sono nato / e ho dimenticato quando sono morto”, seguito da una esplosione di chitarra solista.
Vivo o morto? E chi può dirlo in questo mondo andato alla malora, tra il neoliberismo finanziario che ha distrutto “le speranze del proletariato” (lo cantava già nel 2006 in Workingman’s Blues #2), il cinismo di chi lascia morire i bambini sulle coste della Siria o al confine tra Messico e Stati Uniti, i virus che non si sa da dove provengono e che nessun sistema sanitario mondiale si è curato di prendere in esame, lasciando si diffondessero per le strade delle città. Morte, morte, morte. Siamo già tutti morti dice Dylan e ha ragione.
Il nuovo disco uscirà il 19 giugno, si intitola Rough and Rowdy Ways (maniere ruvide e turbolenti) che è il titolo di una canzone di uno dei tanti idoli di Dylan, il cantante country Jimmie Rodgers che registrò un brano così intitolato nel 1929.
La copertina è demoniaca: uno scheletro vestito come al ballo di fine anno ai tempi della Grande Depressione (ancora il 1929) con in una mano un regalo e nell’altra una siringa, pronto a sterminare il genere umano. Bob Dylan non è un profeta, ma sa riconoscere il diavolo quando questo è presente. E’, da sempre, il cantore più lucido, sarcastico, biblico, e profondamente rock (l’ultima forza di resistenza che ci rimane) della storia E’ più di cinquant’anni che ci dice della morte e della disperazione di un mondo senza Dio: “Un altro giorno che non finisce, un’altra barca pronta a salpare, un altro giorno di rabbia, amarezza e dubbio”. E, a quanto pare, è immortale.



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