Il decreto energia approvato lunedì sera dal governo conferma la fine dei mercati tutelati per l’elettricità, il primo aprile 2024, e il gas, primo gennaio 2024. Nel primo caso i contratti verranno messi a gara, mentre nel secondo il fornitore non cambierà. Gli oneri di gestione per i consumatori nel breve periodo non dovrebbero salire e, anzi, soprattutto nel caso dell’elettricità, potrebbero anche essere minori nel periodo, tre anni, di transizione. Oltre il periodo di transizione la fine del mercato tutelato, con i prezzi oggi decisi dall’Arera, è un’opportunità per le utility italiane che si trovano con un “nuovo mercato” potenziale di milioni di clienti. I mercati tutelati, per inciso, sopravvivono in altri Paesi europei, come la Spagna, a cui evidentemente l’Europa non rivolge le stesse richieste.
Ciò che conta, ai fini del sistema italiano, è il ruolo delle utility nell’attuale scenario economico e geopolitico. La fine del mercato tutelato, quasi unanimemente considerato il miglior contratto a prezzo variabile disponibile sul mercato, è sicuramente un’opportunità per le società del settore che si somma ad altri elementi favorevoli. Lo “spread” tra costo della materia prima nei i contratti a prezzo fisso e in quelli a prezzo variabile rimane ben superiore a quello della fase finita con la crisi in Ucraina e le sanzioni contro il gas russo. La regolazione sulle reti di trasmissione e distribuzione rimane molto favorevole rispetto alla maggior parte dei Paesi europei; dall’anno prossimo la remunerazione per gli operatori delle reti di distribuzione gas e elettricità, i cui costi ricadono in “bolletta”, avrà un incremento significativo. I tetti ai prezzi dell’energia rinnovabile sono finiti e le tasse sugli “extra profitti” che, incredibilmente, avevano colpito le utility nel loro anno peggiore, non sono più all’ordine del giorno.
Sembra che il sistema spinga perché le utility abbiano le risorse necessarie per essere protagoniste nell’attuale scenario energetico. Questo è un approccio di buon senso perché gli investimenti fatti dalle società energetiche non entrano nel debito pubblico e perché la Pubblica amministrazione non ha e probabilmente non potrà mai avere le competenze tecniche e la velocità delle società private per mettere a terra gli investimenti. Il metodo non è contestabile.
È meno chiaro quali siano i fini di questo approccio. La transizione energetica richiede enormi investimenti sulla rete. Conciliare una produzione elettrica intermittente e non programmabile, come quelle eolica e solare, con le esigenze di mantenere la base industriale è impossibile senza sistemi di accumulo che a oggi non sono disponibili se non per quantità irrisorie e comunque a costi esorbitanti. Se il fine che si pone il Governo è “solo” la transizione energetica senza riguardo per i costi imposti al sistema, alle famiglie consumatrici e alle imprese che producono, allora la sfida è facile perché nell’equazione non entra la variabile più difficile che è quella di mantenere competitivi i costi dell’elettricità avendo rinunciato al gas e, in particolare, a quello russo. Il business della scarsità strutturale, oltretutto, comporta tentazioni quasi irresistibili per chi controlla la risorsa scarsa.
Il sistema Paese, in un contesto di competizione commerciale serrata, ha disperatamente bisogno di costi dell’elettricità competitivi. Questo è l’obiettivo a cui subordinare i mezzi. Diversamente il rischio è quello di creare incentivi alla gestione della scarsità, tanto meglio se strutturale, che concilia perfettamente le esigenze della transizione con quelle dei conti economici.
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