Quattro imprenditori cinesi sono stati arrestati martedì a Bologna dalla Guardia di Finanza con l’accusa di sfruttamento del lavoro. Infatti, è emerso che decine di operai erano costretti a lavorare fino a 400 ore al mese. Tra i brand che li rifornivano non solo Imperial, spiccano anche noti marchi di lusso, come Marella di Max Mara Fashion Group, Betty Blue di Elisabetta Franchi, Dixie, Novantanove, Tenax.it, Simi, B&G e P&C. Nessuno di loro è indagato, ma i nomi sono riportati – spiega Repubblica – nell’ordinanza firmata dal gip Domenico Truppa. L’intero comparto della moda, dunque, non è al riparo dal fenomeno del caporalato. Infatti, il gip a pagina 7 parla di «ulteriori contatti rilevanti» tra la leader dei caporali cinesi e le società che riforniva, facendone l’elenco.



L’indagine scuota il settore del tessile per il modo in cui venivano trattati gli operai, nella maggior parte dei casi senza permesso di soggiorno. Infatti, lavoravano in opifici, poi sequestrati dai finanzieri, tra Bentivoglio, Granarolo, San Giorgio di Piano e Rovigo. Venivano reclutati soprattutto attraverso annunci su internet, lavoravano tre volte di più degli orari concordati, erano «privati del riposo giornaliero e settimanale, delle ferie, in condizioni lavorative e ambientali degradanti».



SFRUTTAMENTO LAVORO, LE CONDIZIONI “DEGRADANTI”

Intere famiglie venivano ospitate in “celle-dormitorio” di cartongesso dentro i capannoni, dopo aver cucito senza sosta per 15 ore al giorno, «spesso con macchinari non conformi agli standard di sicurezza», scrive Repubblica. Nell’ordinanza si legge che tutto ciò avveniva «in condizioni alloggiative degradanti». Per il gip, i due addetti alla produzione della società Imperial erano a conoscenza della situazione. Nello specifico, si tratta del responsabile della produzione e dell’area modelli e produzione. Per il legale rappresentante del marchio la consapevolezza non è sufficientemente provata. Invece i due «non solo erano a conoscenza delle dinamiche delle aziende cinesi, ma anche delle condizioni a cui soggiacevano i lavoratori dipendenti delle aziende».



Lo dimostrerebbero conversazioni telefoniche e visite di uno dei due nei magazzini. Ma entrambi, difesi dagli avvocati Gino Bottiglioni e Gabriele Bordoni, respingono le accuse. «Noi ci siamo sempre e solo occupati di interagire coi datori di lavoro per la produzione e il confezionamento dei capi di abbigliamento. Aver visitato i magazzini non implica la consapevolezza del trattamento dei lavoratori al loro interno», spiega Bottiglioni. Bordoni invece aggiunge: «Il mio assistito non si è nemmeno mai recato sui posti ed è totalmente estraneo ai fatti contestati».