Ora lo dicono anche i capi della sicurezza israeliana. La Cisgiordania potrebbe esplodere. La tanto temuta escalation del conflitto israelo-palestinese potrebbe cominciare da un fronte interno, comunque in secondo piano nella narrazione della guerra di fronte alle distruzioni di Gaza. Un allarme riferito a Netanyahu il cui governo ha tenuto una linea molto dura nei confronti della West Bank, con continue incursioni nelle città e nei campi profughi (350 palestinesi morti) di fronte alle quali, tra l’altro, le forze di polizia che fanno capo all’Autorità nazionale palestinese non hanno mosso un dito. Sulla spinta dei partiti di destra che lo compongono, l’esecutivo israeliano si è rifiutato anche di corrispondere all’ANP centinaia di milioni di dollari di entrate fiscali che le spettano, impedendole di fatto di pagare stipendi e pensioni.
Ce n’è abbastanza per comprendere quanto sia alto il livello di tensione. I palestinesi non sono in grado di reggere il confronto militare con Israele, ma lì, proprio in Cisgiordania, spiega Camille Eid, giornalista libanese residente in Italia, collaboratore di Avvenire, potrebbe nascere una protesta simile a quella dell’Intifada, nella quale al di là delle armi disponibili conta mostrare al mondo la volontà di non voler soccombere.
In Israele, intanto, si registrano anche proteste contro Netanyahu, con la richiesta di dimissioni e quindi di un nuovo governo. Difficile, però, che ottengano qualche risultato. La gravità del momento induce anche gli oppositori che in passato si erano esposti contro le azioni militari israeliane e i loro effetti sulla popolazione civile palestinese a tenere un registro più basso: le accuse di tradimento sono dietro l’angolo, soprattutto dopo un attacco devastante come quello subito da Hamas.
Quanto è concreto l’allarme dell’intelligence su una possibile escalation della guerra in Cisgiordania?
Dal 7 ottobre ci sono stati 350 morti. L’ultimo bilancio, del 5 gennaio, parlava di 314, di cui 80 bambini. In pochi giorni quasi 40 morti in più. Sono deceduti anche degli israeliani, l’ultima è stata una soldatessa. È il secondo fronte più acceso, più ancora che in Libano, dove peraltro lo scontro si gioca tra militari, cioè IDF e Hezbollah. Mi meraviglio che la Cisgiordania non sia ancora esplosa a quasi 100 giorni dall’inizio della guerra. Basta pensare al numero di incursioni quotidiane messe a segno dall’esercito israeliano: nell’ultimo giorno hanno preso di mira Ramallah, Tulkarem, Jenin, Bireh, Hebron. Per non parlare di tutti i campi profughi. È un continuo attaccare mentre gli occhi sono puntati su Gaza o sul fronte con il Libano.
In che cosa consistono queste incursioni?
Non ci sono bombardamenti come nella Striscia: i militari entrano di giorno e di notte per rastrellamenti, sparando, scontrandosi anche con gruppi armati, con le forze di sicurezza palestinesi che non intervengono. Israele le considera incursioni antiterrorismo.
Hamas in Cisgiordania non è radicata come a Gaza, ma è comunque presente. Sono attivi anche altri gruppi palestinesi armati?
C’è un po’ di tutto. Anche un gruppo legato a Fatah, non in sintonia con la leadership politica del suo movimento. Nel campo di Jenin negli ultimi due anni sono nati gruppi sganciati dalle solite sigle, legati anche ad Hamas, che però qui è radicato soprattutto dal punto di vista politico: l’ANP lo tiene d’occhio. I capi militari dell’Autorità nazionale palestinese seguono corsi di addestramento militare anche in America. Trump aveva tagliato 80 milioni di dollari per fare pressione sul capo dell’ANP Mahmud Abbas. Quando era uscita la notizia ci si era chiesti quale fosse la cifra complessiva fornita dagli USA per sostenere la struttura militare dell’Autorità, perché non era nota. Tra i candidati alla successione di Abbas (Abu Mazen, nda) più graditi a Washington, per non dire a Tel Aviv, ci sono proprio questi capi militari palestinesi: si spiega anche così il silenzio di fronte alle violazioni che si sono verificate negli ultimi mesi. Se i servizi militari preposti alla protezione dei civili non intervengono, tanto vale che Mahmud Abbas dichiari lo scioglimento di queste istituzioni palestinesi, sarebbe meglio dire: “Siamo tornati sotto occupazione”.
Per questo l’ANP ha perso credibilità fra gli stessi palestinesi?
Sì. Per questo sarebbe più onorevole dire “Non abbiamo voce in capitolo” piuttosto che lottare per mantenere alcuni privilegi, che tra l’altro non si vedono neanche più. L’ANP non ha soldi per pagare i suoi, né la forza morale e militare per intervenire: meglio le dimissioni. Abbas uscirebbe almeno con onore dalla scena.
Il pericolo di una insurrezione, quindi, è sempre più concreto. Ma le milizie attive in Cisgiordania possono reggere il confronto con Israele?
No, non potrebbero. Gaza era autonoma anche dal punto di vista militare. La Cisgiordania no: non ha le stesse capacità. Però, se pensiamo alla prima Intifada, il mondo era solidale con i palestinesi, perché erano disarmati e opponevano resistenza ai carri armati con le pietre.
Quella che potremmo attenderci è una resistenza poco più intensa che nel periodo dell’Intifada?
Sì. Ai tempi dell’Intifada qualche arma circolava, ma il grosso dei manifestanti era costituito da gente disarmata. Ha portato comunque agli accordi di Oslo. Non sto invitando all’insurrezione, semplicemente constato che la leadership politica sta coprendo delle violazioni che il mondo non vede perché l’attenzione è concentrata su un fronte solo.
In Israele intanto c’è stata una manifestazione davanti alla Knesset per chiedere elezioni anticipate e la sostituzione dell’attuale governo. Alla fine l’unica possibilità che si sblocchi la situazione della guerra dipende da un cambiamento dell’esecutivo? Finché resta questo in carica, in cui prevalgono le posizioni dei partiti di destra, non ci possono essere cambiamenti di linea?
Un cambiamento politico chiaramente potrebbe incidere sull’andamento del conflitto. Netanyahu non è tanto lontano dalle tesi sostenute da Ben Gvir e Smotrich, però alla fine sono loro a guidare il gabinetto di guerra. Gantz è stato invitato a uscire dal governo per farlo cadere o almeno per non permettergli più di presentarsi come governo di unità nazionale, accelerando una nuova soluzione. È vero che i conti politici sono stati rinviati alla fine della guerra, ma se il conflitto durerà per mesi, aspettando ancora si rischia di regolarli quando tutto sarà già stato deciso.
Ma c’è la effettiva possibilità di un cambiamento politico?
La società israeliana ha dato prova in alcuni momenti del Paese di saper reagire a certe situazioni. Ci sono attivisti arrestati per aver chiesto il cessate il fuoco, ma stavolta c’è un timore maggiore: dopo il 7 ottobre c’è stato un solo caso di un riservista che si è rifiutato di prestare il servizio militare: prima si contavano a decine se non a centinaia. C’è il timore di essere bollato come traditore in un momento particolarmente grave, più che nel passato. Ci sono delle iniziative di dissenso ma molto più rare di prima. Negli ultimi mesi c’erano manifestazioni settimanali contro la riforma della giustizia, un movimento del quale adesso non c’è traccia. Tutti coloro che sono anti-Netanyahu adesso sono bloccati da questo clima.
(Paolo Rossetti)
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