Forse qualcosa deve cambiare, e anche velocemente, nella narrazione del conflitto che insanguina la terra di Abramo da più di settant’anni e che ha trovato nel pogrom del 7 ottobre 2023 un punto di non ritorno. È notizia di ieri, infatti, che l’aviazione israeliana abbia centrato un ospedale della Striscia di Gaza con un missile, uccidendo quattro persone e generando un incendio che ha portato all’ustione di altre due dozzine di civili. Il fatto, esecrabile crimine di guerra, si aggiunge agli altri molteplici episodi che tingono di sangue la strategia bellica del premier Netanyahu e che si completano con l’aggressione alle truppe ONU presenti in Libano da parte dello stesso esercito di Tel Aviv, configurando un quadro in cui gli eredi del popolo eletto, cercando di sgominare tutti i terroristi della regione, diventano macellai di intere popolazioni.
Il punto, tuttavia, non può essere soltanto geopolitico, ostaggio dell’inutile questione su “chi abbia ragione” e chi no. È evidente che non esiste più soluzione politica al ginepraio che avvolge la Palestina e che la soluzione militare – la vittoria di Israele – segnerebbe paradossalmente il caos per una regione che mai si arrenderebbe a vivere sotto l’effige della bandiera con la stella di Davide. La questione è più radicale e profonda: che cosa può placare la fame di sicurezza del popolo israeliano? Che cosa può far uscire le donne e gli uomini dell’Alleanza dalla spirale di rivendicazione e di vendetta che connota il loro agire e la loro presenza? Chi può porre un freno all’intensa collaborazione terroristica che supporta l’azione dei gruppi armati che operano a Gaza e in Libano? Come placare l’Iran?
370 giorni d’odio, infatti, rischiano di generare un altro secolo di terrore: la rabbia si eredita, la violenza si coltiva. Crescere orfani palestinesi o libanesi pieni di rancore assicura ulteriori decenni di morte, illudendo i figli di Sion di essere al sicuro dalle minacce di oggi, senza rendersi conto di aver solidamente edificato quelle di domani. Tutti si devono fermare. Non per far prevalere lo schieramento opposto, ma per tornare a sentire il dolore. Tutti devono sentire le lacrime dei bambini, delle madri, dei malati, di coloro che non hanno più nulla. Finché non si permetterà alla sofferenza di farsi sentire, di esprimersi in pianto e di trovare un proprio spazio di dignità, questa guerra sarà un conflitto ideologico, dove il nemico non ha volto e la pietà non conosce luce.
Fermarsi. Con un’iniziativa vera degli Stati Uniti d’America, impegnati in elezioni che per ancora venti giorni non consentiranno all’Occidente di avere un leader riconosciuto e autorevole. Con un’iniziativa unitaria dell’Unione Europea, che non può continuare a morire ripiegata su se stessa e sulle proprie divisioni, ma deve ritrovare – nell’ecatombe di questi mesi – il proprio ruolo di potenza di pace e di dialogo. Fermarsi, tuttavia, non basta. Ascoltare il dolore, sebbene fondamentale, non basta. Libano, Israele e Palestina – ciascuno riconosciuto come Stato autonomo e indipendente – devono essere aiutati da investimenti seri che non solo puntino alla ricostruzione di ciò che è distrutto, ma che sappiano valorizzare tutte quelle esperienze educative che in questi decenni hanno dimostrato di essere più grandi dell’odio. La pace non è quella che un giorno qualcuno firmerà col coltello nascosto nelle scarpe, ma è quella che c’è già e che si sperimenta in tutti quei luoghi dove ebrei e palestinesi vivono e si perdonano.
Chi vincerà la scommessa del Medio Oriente metterà sulla bilancia della storia una carta decisiva. Potrebbero essere gli interessi economici americani, le necessità geopolitiche turche o cinesi, il fanatismo religioso dei regimi sunniti. Oppure potrebbe essere la storia lunga e saggia di un’Europa che – proprio nella terra di Giacobbe – potrebbe trovare un’anima, un’identità, uno scopo. Il Medio Oriente, più di ogni altro scenario, è la partita del secolo. Dove si decide che volto avrà il mondo per tutti i prossimi settantacinque anni. Sottovalutarlo significa condannare popoli interi alla morte e rinunciare all’unica possibilità per l’Europa di tornare a giocare un ruolo che le permetta di uscire dall’angolo e di ritrovare quell’unità che, unica al mondo, può essere capace di tutto. Anche di ascoltare il dolore lontano degli uomini e delle donne che sono morti per l’orribile guerra voluta da predoni assetati di rivincita e prigionieri della propria superbia.
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