«Già due anni fa ci facemmo l’idea di un colossale equivoco fra due persone in buona fede:»: così Marco Travaglio, direttore del Fatto Quotidiano, bollava pochi giorni fa il gran caos generato dalle parole del pm Nino Di Matteo rispetto alla scelta del Ministro Bonafede di proporre prima e poi ritirare la sua nomina alla guida del Dap. Sono venute poi le interpellanze in Aula, lo scontro tra Governo e opposizioni sul ruolo di Bonafede alla guida della Giustizia e soprattutto sono usciti dal carcere 496 mafiosi di ogni rango, boss compresi: a mettere una “pezza” il Decreto varato in fretta e furia dallo stesso Bonafede per riportare in carcere gran parte di quei mafiosi finiti ai domiciliari, con le dimissioni della guida del Dap (Basentini, ndr) e le parole ieri in Aula dello stesso Ministro.
«Si continuano a cercare possibili condizionamenti evocando, in modo più o meno diretto, i vari livelli istituzionali – ha detto alla Camera il ministro Bonafede, sulla mancata nomina di Nino Di Matteo al Dap -. Una volta per tutte: non vi fu alcuna ‘interferenza‘, diretta o indiretta, nella nomina del capo dipartimento dell’amministrazione penitenziaria. Punto! Non sono disposto a tollerare più alcuna allusione: lo devo a me stesso ma lo devo prima di tutto alla carica istituzionale che mi onoro di ricoprire».
Caso finito? Neanche per sogno, oggi su Facebook la giornalista del Fatto Quotidiano Sandra Amurri con un lunghissimo racconto prova a ristabilire alcuni punti insoluti della querelle Di Matteo-Bonafede e soprattutto inchioda alcune domande che di fatto smentiscono su tutta la linea la tesi del “equivoco” pure elaborata dal suo stesso direttore Travaglio.
LA VERSIONE DEL FATTO (CHE SMENTISCE IL SUO DIRETTORE)
«Detestando la consueta prassi del ridurre tutto a tifo da stadio, cercherò di andare indietro con il tempo, con assoluta laicità, per offrire una lettura di ciò che la cronaca ci impone affinchè ognuno possa farsi una opinione non condizionata da posizioni vincolate ad interessi di parte»: il racconto di Amurri è molto duro soprattutto sulle scelte fatte dal Movimento 5 Stelle in sede di “promesse elettorali” per poltrone ambite, tra cui appunto il Dap e gli Affari Penali, ruolo ricoperto da Giovanni Falcone che era stato proposto da Bonafede a Di Matteo dopo il “ritiro” della nomina alla guida delle carceri. «La questione non si può ridurre alle bizze di due ragazzotti un po’ discoli che alla fine, grazie alle esortazioni del maestro di turno fanno pace, o ad un semplice equivoco nato da una incomprensione di Di Matteo. La questione è politica. Un Ministro della Giustizia, soprattutto se del M5S che ha fatto della trasparenza, del no agli inciuci, delle dirette streaming il suo slogan, ha il dovere politico di dire ai cittadini la verità», attacca ancora la Amurri dopo aver spiegato nel dettaglio cosa è veramente successo tra l’intervento di Di Matteo a “Non è l’Arena” e tutti i pregressi e successivi atti (trovate tutto nel lungo post Facebook embeddato qui sotto, ndr).
«E la verità equivale a rivelare chi ha fatto pressioni su di lui affinché retrocedesse dall’affidare l’incarico a Di Matteo. Di rivelare chi ha posto il veto sul suo nome. Esattamente come accadde quando, Governo Renzi, Napolitano pose il veto sulla nomina a Ministro della Giustizia di Nicola Gratteri, fatto che fu proprio Gratteri a raccontare in un programma televisivo senza che nessuno, a quanto ci risulti, si strappò le vesti. Eh sì perchè il “no” a Di Matteo con tutto quello che ne è conseguito, 476 fra boss mafiosi e criminali liberati ha una valenza politica anche per la tenuta democratica del Paese», ribadisce con nettezza la giornalista che chiede le dimissioni immediate di Bonafede, non prima di aver rivelato chi avrebbe “interrotto” l’arrivo di Di Matteo alla guida del Dap.
Per farlo, la Amurri riporta un parallelo con Falcone e i boss della Mafia che fa ben intendere la sua tesi non tanto di “interferenza dei boss” – a quella Amurri non crede anche perché non si sono prove – ma piuttosto l’incompetenza di una figura così per un ruolo decisivo come il Guardasigilli, in netta distanza da quanto sostiene il suo direttore: «Chiudo con la risposta che il boss Frank Coppola diede ad un giudice che mentre lo interrogava gli chiese :cos’è la mafia? Episodio che Giovanni Falcone riporta nel libro scritto con Marcel Padovanì Cose di Cosa Nostra nel capitolo “Messaggi e messaggeri nella mafia”. “Signor giudice, tre magistrati vorrebbero oggi diventare Procuratori della Repubblica” esordisce Coppola “uno è intelligentissimo, il secondo gode dell’appoggio dei partiti di governo, il terzo è cretino, ma proprio lui otterrà il posto”».